A novanta anni aveva scritto un libro, elogiando i vantaggi di quella che, con un termine mai del tutto gradevole si chiama “terza età”, ma che per lui era un’ altra utile postazione per osservare il mondo, i suoi protagonisti con lo stesso stile distaccato di un giornalista nel senso più anglosassone delle regole auree professionali sempre autoimposte e rigorosamente rispettate.
A novantadue anni suonati da tre mesi, Piero Ottone, nome d’arte per Pierleone Mignanego, dà l’addio o meglio arrivederci ai suoi lettori di “Repubblica” e alla sua trentennale rubrica sul settimanale del “Venerdì”, “Vizi&Virtù”, con un pezzo di insolita eleganza e sensibilità.
È raro, se non impossibile leggere, un saluto diretto ed esplicito di un grande del giornalismo contemporaneo che decide, a un certo punto, di non scrivere più e di comunicarlo con un ragionamento e una raccomandazione, che può sembrare quasi un messaggio in perfetta linea con la sua condotta umana e professionale: regole ferree, fatti separati dalle opinioni, chiarezza quasi glabra nell’esposizione e un coerenza tanto lineare da apparire spesso quasi banale.
“Da qualche settimana non alimento più la mia rubrica Vizi&Virtù” – scrive Ottone nell’ultima puntata della rubrica pubblicata su “Il Venerdì” – e forse la sospensione sarà definitiva. La ragione è semplice: ragione di età.” E poi la citazione dotta, ma usata per spiegare se stesso con un fatalismo senza sconti: “ In Germania dopo la guerra si cantava la canzone popolare “Es Geht Alles Voruber, es geht Alles Vorbei,” tutto finisce a questo mondo e la canzonetta si applica anche a quel che scriviamo“.
Seguono i ringraziamenti, un appuntamento eventuale a scrivere ancora, “se il lampo dell’ispirazione da cogliere mai arrivasse” e quel messaggio, che è un po’ il filo rosso che lega gli articoli e i libri di Ottone negli ultimi anni. Lui la definisce un po’ una monomania, quella di citare sempre e con insistenza un autore tedesco, Oswald Spengler, l’autore di “Il tramonto dell’Occidente”, ma da giornalista rigoroso con se stesso e le sue regole non può farne a meno in questo arrivederci-addio.
“ I lettori avranno detto più di una volta che barba – si giustifica quasi Ottone. – Sarà pure una barba, una monomania, ma gli eventi di questi anni confermano con puntualità sorprendente la tendenza del tedesco e le sue previsioni. Anche la nostra civiltà, dopo le sei o sette che l’hanno preceduta sta dando segni molteplici e siamo proprio al termine della corsa, specie con quello che vediamo negli ultimi mesi”.
Ottone non ha bisogno di cercare esempi complicati per spiegare la sua insistenza con Spengler: gli inglesi che dominavano il mondo non sono capaci di organizzare decentemente una Brexit, gli americani non sono in grado di scegliersi i presidenti e il malgoverno è imperante ovunque…la conclusione è perentoria, quindi, molto spengleriana: questa civiltà occidentale sta finendo malamente e se ce ne sarà un’altra dopo, sarà completamente diversa da quella precedente.
Insomma Ottone ci saluta, inquadrando il tempo in cui viviamo, la storia da cui veniamo e quella che ci aspetta, lungo un filo che ha sempre tenuto teso nel suo lavoro così lungo così ricco e così prolifico, migliaia di articoli, una trentina di libri e un ruolo chiave nei giornali, almeno per tutta la seconda metà del Novecento e nei primi anni del terzo Millennio del quale avverte, sempre rigoroso: “Le conquiste tecniche cui assistiamo non sono una contraddizione della crisi che espongo. I successi tecnici degli ultimi tempi erano visti nello stesso modo anche da uno storico inglese, Taylor , che scrisse come la fine di un grande periodo di una civiltà sia ricca di episodi come i nostri. Ma l’avverarsi di una tesi in cui si è creduto, faute de mieux, è una sia pur modesta consolazione. “
D’altra parte che cosa ci si poteva aspettare da Piero Ottone, un direttore che ha fatto svoltare il modo di fare i giornali con le due direzioni che ha gestito tra il fatidico 1968 e il 1977, neppure dieci anni, ma così importanti?
Dal 1968 al 1972, dopo una carriera da inviato speciale e corrispondente (il primo italiano a risiedere a Mosca per il “Corriere della Sera”), direttore a il Secolo XIX di Genova, che rifondò completamente, lanciandolo tra i primi giornali italiani, portandolo a un livello di diffusione che ne ha fatto un esempio per decenni e innovandone sopratutto la formula.
Era stato, nella compassata Genova del pre-sessantotto, una specie di rivoluzione epocale nel linguaggio e nell’approccio con le notizie e con tutti gli ambienti della città e poi della Regione, conquistata interamente dalle redazioni locali del “Monono”. Stile aggressivo, ricerca delle notizie fuori dai percorsi tradizionali, linea certamente progressista e di sinistra, spesso tanto spinta da choccare il compassato understatement genovese, “Il Secolo XIX” di Ottone si era imposto sullo scenario nazionale come un modello in tempi rabbiosamente mutevoli, come quelli di un Sessantotto e dintorni che capovolgeva la società, imponeva sulla scena nuovi soggetti, come i giovani, il sindacato sempre più dominante.
Erano bastati quattro anni a lanciare quello che oggi chiameremmo un prodotto rivoluzionario e che allora era un giornale”nuovo” con Ottone al comando e una banda di giovani, Cesare Lanza in testa, nei ruoli chiave, una scuola diversa per scovare e scrivere le notizie. Un risultato tanto forte che quando a Milano Giulia Maria Crespi capì che anche il “Corrierone”, vero monumento del gionalismo italiano, aveva bisogno di una scossa che lo togliesse dal suo aplomb consacrato nella direzione di Giovanni Spadolini, destinato a una carriera politica più che a un cursus honorum giornalistico, chiamò a Milano Ottone.
Gli anni al “Corriere della Sera”, dal 1972 al 1977, furono altrettanto rivoluzionari e imposero questa volta su una scena molto più grande il modello Ottone. Certo: di quell’imprinting al giornale allora più importante restano della direzione ottoniana due flash forti, ma anche molto riduttivi rispetto ai colpi di timone del genovese: Pasolini in prima pagina e lo strappo con la vecchia e storica guardia del giornale di corso Solferino, il “licenziamento” di Indro Montanelli, il giornalista-principe che se ne andò a fondare in piena dissidenza “Il Giornale” con le penne nobili fuoriuscite dal “Corriere”.
Il cambiamento della società, incominciato con il Sessantotto, procedeva aspramente e duramente e in quel quinquennio Ottone lo poteva seguire sulla corazzata dei giornali italiani: erano gli anni di piombo, esplodevano i grandi conflitti sociali, il miracolo italiano era un ricordo lontano, il Pci raggiungeva l’apogeo del suo consenso popolare nelle elezioni politiche del 1976. Che doveva fare un grande giornale, ancorchè espressione della grande borghesia italiana?
Ottone governava il giornale più importante nel sistema mediatico nel quale la Tv era ancora una faccenda della Rai e di spartizione dei direttori dei Tg.
Quando decise di lasciare quella direzione, dopo l’arrivo nella propietà dei Rizzoli e la resa di Giulia Maria Crespi, quando la piovra della P2 stava mettendo le mani sul grande giornale lombardo, Ottone decise in cuor suo che non avrebbe diretto altro.
Era ancora giovane, aveva solo 53 anni e avrebbe potuto aspirare a tante altre direzioni. Ma era Piero Ottone e aveva le sue regole: sarebbe diventato un importante dirigente del Gruppo Mondadori, prima della guerra di Segrate. Poi avrebbe fatto parte del Gruppo Espresso con tanti incarichi nei giornali locali, una penna sempre pronta a scrivere articoli e libri nelle corazzate di quel gruppo, “Repubblica” e “Espresso”.
Non ha mai smesso di scrivere, Ottone e probabilmente continuerà anche dopo questo addio spengleriano, quando l’ispirazione gli arriverà. E non c’è dubbio che contineranno a ispirarlo i venti delle notizie e quelli delle tempeste, delle bonaccie, dei normali ritmi metereologici, che il vecchio nocchiero di giornali e barche può misurare dallo splendido terrazzo della sua casa di Camogli, a picco sul vecchio porticciolo, da dove si ammira la punta di Portofino e dall’altra parte Genova, distesa verso Ponente. Il mare e i venti sono sempre stati la sua grande passione, con le barche a vela con le quali volare via, appena possibile.
E forse quell’addio al timone della barca, dovuto a quelle stesse “ragione di età”, magari un po’ anticipate , è stato più doloroso per lui rispetto all’arrivederci ai giornali.