GENOVA – Potevo esserci anche io su quel ponte di un chilometro e cento ottanta metri, alto 55 metri sulla Valpolcevera, la grande periferia genovese, con le campate larghe, gli “stralli” che modellavano la sua linea somigliante a quella mitico di Brooklyn, la gittata verso il cuore di Genova, le corsie di andata e di ritorno, passaggio chiave nel sistema infrastrutturale italiano per andare e tornare verso la Francia o verso il Nord Ovest del Piemonte. Potevo esserci io, viaggiatore genovese avanti e indietro verso il ponente della Liguria o tu, pendolare per lavoro tra una parte e l’altra della città o tu, diretto all’aeroporto, raggiungibile in pochi minuti o potevano esserci quelle lunghe code di piemontesi, milanesi, alessandrini che in questi giorni ci stavano a passo d’uomo, per uscire dal principale casello autostradale genovese e entrare in porto, diretti ai traghetti delle vacanze. Potevano esserci uno, dieci, cento, mille dei trentamila Tir che percorrono in un giorno le autostrade liguri o i pulman di turisti in viaggio nel cuore della Liguria o i furgoni che sfrecciano sulle quattro corsie, vista sulle colline genovesi da una parte e, dall’altra, lo sfondo della città verso il mare e dall’altro ancora, quasi incombente, o benedicente, il Monte Figogna con in cima il Santuario della Madonna della Guardia.
Dove eri, dove guardavi, Grande Protettrice di Genova, Madonna della Guardia dei miracoli impossibili, ieri mattina, alle ore 11,50, sotto quel nubifragio, quando quel pezzo di ponte è “collassato”, si dice così, con un termine troppo tecnico, troppo freddo e sull’ asfalto inondato dall’ultima bomba d’acqua scivolavano una trentina di automobili, tre Tir, un traffico rearefatto rispetto alla data fatidica della vigilia di Ferragosto, e venti, trenta anime a bordo, venivano inghiottite nel vuoto, ignare che stava per aprirsi la voragine più sconvolgente, più inattesa, con il ponte che si apriva sotto le ruote delle loro auto, dei loro camion?
E’ crollato il ponte Morandi! La notizia più tragica, e in qualche modo più temuta nella storia complicata delle comunicazoni genovesi, si è abbattuta come un fulmine, insieme a un fulmine vero, diranno i primi testimoni sconvolti, ed è rimbalzata ovunque come una eco terrificante per ogni angolo non solo della città, ma della Regione, dell’Italia ,del mondo non solo dove quel ponte, la sua sagoma inconfondibile era conosciuta.
Un ponte inaugurato nel 1967, costruito in quattro anni, misurato su un traffico che in questi cinquanta anni è decuplicato, percorso da miliardi di automezzi, sempre più traffico, sempre più peso su quelle campate disegnate dall’estro di Morandi e che era diventato l’oggetto di tutte le discussioni possibili sul sistema infrastrutturale di questa città fragile, debole, abituata a sfarinarsi, quando piove troppo, a alluvionarsi quando diluvia e i suoi fiumi secchi e aridi per trecento giorni all’anno, si scatenano come furie.
La furia si scatena sopra, tra le nuvole della pioggia, all’altezza di quei 55-60 metri, che quando ci sei sopra o hai lo spirito di chi sta partendo o di chi sta tornando a casa e sorvoli quella valle e proprio uno di quei fiumi secchi, che adesso è pieno dell’acqua piovuta nel cuore di agosto, nel cuore delle vacanze.
E volano giù quelle trenta automobili e quegli autocarri e il cielo sopra Genova si spezza e l’orizzonte si modifica e la linea elegante del ponte si mozza, come nel disegno di un bambino che non ga completato il compito. E’ la più grande tragedia genovese dalla fine della guerra, supera anche le alluvioni che hanno tempestato la Superba per decenni, lascia senza fiato e quando i mezzi di soccorso incominciano a correre sotto quel ponte nella strada che scorre in basso, via Fillak, del popoloso quartiere tra Sampierdarena e Rivarolo, due quartieri appunto popolari, popolosi, di case e ex fabbriche, di capannoni , si ha la sensazione che sia come caduto il cielo su Genova, che la maledizione si sia abbattuta e che quel fulmine fosse stato in qualche modo annunciato.
Da quanti anni si parlava dell’”insufficienza” del ponte, di come bisognava trovare un’alternativa a quel passaggio obbligato, a quell’unica strada a quel percorso senza alternative , la sintesi micidiale, la croce del sistema autostradale genovese, logoro, sovraccarico, sempre “cantierato”, con gli operai appesi alle sue campate, a rinforzare, a iniettare cemento a rinvigorire gi stralli?
C’era tutta una nomenclatura quasi ridicola per indicare queste alternative su cui la città, la sua classe dirigente, si erano scannati per lustri e decenni interi, prima la “Bretella”, una tangenziale già finanziata negli anni Ottanta e con i fondi perduti e dirottati nelle autostrade del Sud Italia, perché il Pci allora dominante non voleva violentare un territorio elettoralmente fedele, poi la “Gronda”, il nuovo sistema viario super genovese, i cui primi cantieri dovrebbero essere aperti in autunno, dopo dibattiti infiniti, sofisticamente definiti anche “dèbat public”, che sembra più elegante dirla così e ora sembra una beffa.
Tante chiacchiere inutili, mentre ora siamo sotto questo cielo da tragedia buia, manco non fossimo nel cuore dell’estate, a cercare di capire quanti morti, quanti feriti, quante distruzioni.
Quante vite ha inghiottito il ponte maledetto che si spezza “per cedimento strutturale”. A metà pomeriggio i responsabili della Protezione Civile parlano di 35 morti e di 20 feriti, ma un’altra fonte parla di 35 auto “precipitate” e di tre autoarticolati. E poi ci sono le vittime al suolo, perché i quintali di cemento sbriciolati sono piovuti sulle case, sulle fabbriche, sulla linea ferroviaria interrotta rovinosamente, in mezzo a un deposito dell’Amiu, la Nettezza Urbana, seppellendo un automezzo con due addetti a bordo per i quali la morte è precipitata dal cielo.
Così quello che qualcuno ha battezzato il “nostro Vajont”’ uccide sopra e sotto e le divise dei Vigili del Fuoco, che accorrono “sotto” si agitano nello scenario apocalittico, come se ci fosse stato un terremoto, perché i “mozziconi” del ponte precipitato per duecento metri di lunghezza hanno ricoperto di macerie il terreno e le vittime si cercano come dopo una sciagura simile, con i cani che annusano le traccie, lo scavo a mani nude.
E’ morto perché è precipitato dall’alto o è morto perché il ponte gli è piovuto dall’alto?
E’ un girone infernale quello che si presenta sotto la linea spezzata del ponte maledetto, con i morti estratti dal cemento e con i sopravvissuti portati a sirene spiegate verso gli ospedali di una città attonita, di una Regione ammutolita.
E’ caduto il ponte Morandi e da quel ponte la notizia scatena una gigantesca psicosi perché poteva esserci chiunque, tuo fratello un amico, la tua famiglia, in partenza o in arrivo dalle vacanze o semplicemente di passaggio casuale. E i social impazziscono nella richiesta di notizie. “Siete salvi?” “Tutto bene”? Chiunque è passato di lì un’ora fa o aveva programmato di passarci.
Arrivano messaggi da ogni parte del mondo, che chiedono rassicurazioni. E sul mozzicone del ponte spezzato i miracolati raccontano con il cuore in gola e il respiro corto come sono sfuggiti per pochi metri dal destino tragico. Quel camion che si è fermato a tre metri dalla voragine. Quella famiglia che ha sentito le frenate delle auto davanti alla propria, ha visto il ponte “collassare” ed è scappato a piedi, indietro, verso la galleria che precedeva l’ ingresso del ponte e ha visto dall’alto la scena apocalittica.
Genova e la Liguria si spezzano in due insieme al ponte. Quel ponte era veramente “il passaggio” tra Levante e Ponente, verso Nord e verso Est. Si spacca in due l’autostrada, si interrompe la ferrovia, le strade statali sono intasate dal traffico ferragostano e la Liguria sembra irraggiungibile da una parte e dall’altra non ne puoi uscire.
Dopo le visite immancabili del premier Giuseppe Conte, del ministro dei Trasporti Toninelli e dei due vice premier Salvini e Di Maio, da oggi incomincerà il processo su chi non ha chiuso il ponte prima che “colassasse”, su chi non ha preparato soluzioni alternative. Il sindaco Marco Bucci chiude la conferenza stampa dell’emergenza quasi urlando che “Genova non è in ginocchio, reagisce:”. Ma mentre il cielo si rischiara un po ’dopo le bombe d’acqua e i nubifragi e i fulmini l’orizzonte della città è spezzato. Come il ponte maledetto.