Porto di Genova, progetto colossale, come ai tempi della Superba: grande diga, mega banchina, e c’è chi rema contro

Ci avevano messo solo sei anni, dal 1919 al 1925, a cambiare faccia alla città. E soprattutto al grande porto storico e medioevale. Grazie ai soldi del duca di Galliera, principe di Lucedio, ingegner Raffaele Luigi Francesco Ignazio Emanuele Alessandro De Ferrari. Una specie di Rockefeller italiano, l’uomo che cambiò le comunicazioni in Europa, inventando per primo nuove linee ferroviarie, uomo che aveva accumulata una ricchezza sconfinata.

Raffaele De Ferrari regalò al Regno d’Italia, sul finire del secolo XIX, 20 milioni delle lire di allora, per rifare il porto.

Lui che amava vivere tra Coronata, sulle alture di Genova e Voltaggio, nel suo sobrio entroterra. E poi viaggiava l’Europa sulla carrozza a cavalli, come oggi si va con il jet privato.

Era ancora il porto dei velieri, che attraccavano a pontili di legno, aperto alle sfuriate del libeccio, trafitto dallo scirocco. Lo rifecero con quei capitali donati dal Rockefeller genovese con un lavoro per l’epoca ciclopico. Buttando in mare da chiatte pericolanti piloni composti di tre massi dal peso di 200 tonnellate l’uno. Costruirono una diga di 1550 metri, poi allungata a 1850, con una larghezza di quattro metri e mezzo, posando quei massi, appunto definiti ciclopici, uno sopra l’altro nei fondali.

Tra il 1913 e il 1926 i beneficiari di quel lascito hanno così fatto la fortuna di Genova, del suo porto, dei suoi traffici, del business atavico di questo popolo di mercanti e navigatori, che ora avevano la protezione dal mare da tutte le tempeste.

Per un secolo la diga ha protetto il porto di Genova dalla furia del mare

Quella diga ha retto a tutto, salvo a un fortunale spaventoso nel 1955, quando le onde la spaccarono in più punti, subito riparati. E ha visto pure il sangue dei marinai inglesi della London Valour, nel 1970. Quando un incauto ormeggio fuori dell’imboccatura del porto, provocò la tragedia della nave sbriciolata contro i suoi massi. In uno degli spettacoli più spaventosi di mare e vento che Genova ricordi.

Un secolo e dieci, venti anni dopo, quella diga non basta più. Altro che velieri, i primi vapori e poi i transatlantici, le prime portacontainer da 150 metri di lunghezza.

Oggi devono entrare supernavi da 400 metri di lunghezza e 60 di larghezza, cariche di container o grandi navi passeggeri, con 5000 persone a bordo.

E quella diga è stretta. E allora ecco il Grande progetto che Genova, rappresa tra le paure del Covid e il timore dei traffici in declino come tutta l’economia, sta studiando e dibattendo. Un’opera da 1 miliardo e trecentomila euro, in parte finanziata dal Recovery Fund. Con una cifra che oscilla tra la speranza di un miliardo e la delusione di 500 milioni. Per cui la Technital sta già lavorando per consegnare in sei mesi il progetto di fattibilità.

Una nuova super diga per riportare il porto di Genova ai fasti del passato

Questa diga è essenziale per confermare questo porto dalla storia così profonda come leader del Mediterraneo, per portarlo dai 2 milioni e mezzo di container di oggi ai 6 o 7 del super traffico. Ha già tre disegni, un tifo pazzesco di armatori, terminalisti, autorità costituite e qualche oppositore.

Sarà, questa superdiga, al largo di quella finanziata dal Duca di Galliera per ben 500 metri, cambierà i connotati non solo del porto, ma del golfo genovese e in una prospettiva larga della città intera, che sarà “cinturata” in mezzo al mare da una opera colossale.

Quando il Duca generoso, e forse anche spinto dalla mancanza di una discendenza, “regalò” ai genovesi i capitali per costruire la vecchia diga nessuno si sognò di mettere in discussione quella costruzione. Nessuno si mise a calcolare se conveniva, insomma nessuno pensò di fare un calcolo costi e benefici dell’opera.

Spendo tanto, trasformo tanto, che ritorno avrò e in quanti anni?

Se ne parla da dieci anni, ora col Recovery fund si può fare

Sono passati dieci anni dal primo switch dell’opera. Schiacciato da un vecchio leone del porto di Genova, il poliedrico Aldo Spinelli. Grande uomo di traffici, terminalista non solo a Genova, autotrasportatore. Oggi, mentre la pioggia milionaria del Recovery Fund si profila, c’è chi il calcolo costi benefici lo fa eccome, mettendo in discussione tutto.

È in corso, obbligatorio per legge, un dèbat public, di confronto tra tutti. E la maggioranza che si profila è a favore, largamente. Ma i contrari ci sono. E non solo per scegliere se l’ingresso di questo maxi porto, spostato di cinquecento metri al largo, sarà a Levante, come è oggi. O a Ponente, verso il porto satellite di Prà Voltri.

Quel salto di 500 metri consentirebbe la realizzazione del “porto in linea”, un unico molo, dallo scalo storico, in fondo ai carruggi di Genova, fino alla foce del Polcevera.

Il porto “fascista”, costruito con i soldi del duca di Galliera, verrebbe interrato e anche Sampierdarena non avrebbe più i suoi limiti di spazi e di manovra. Diventerebbe il vero concorrente dei porti Nord Europei. Che oggi mangiano la faccia, con distanza di cinque-sei milioni di container.

Quel burbero-ilare di Spinelli commenta perentorio che se non lo facciamo questo porto monstre, saremo per sempre tagliati fuori dai traffici mondiali. “Potremmo davvero raddoppiare i traffici, dice “sciù” Aldo, nella sua cantilena genovese-mundial, immaginando l’ingresso trionfale nell’arco genovese di queste supernmavi lunghe 400 metri.

Ne potrebbero entrare due contemporaneamente e fare le evoluzioni, prima di andare a scaricare i container.

La tragedia del Jolly Nero non ci sarebbe stata col nuovo porto di Genova

Oggi lo spazio per le manovre delle navi, lunghe 300 metri e anche meno, è tanto pericoloso che in un tragico giorno del 2013 la Jolly Nero, nave della flotta Messina, compiendo una di queste evoluzioni, andò a schiantarsi contro la Torre Piloti. Provocando la morte di nove marinai, un lutto incancellabile per Genova e il suo porto. Un processo che si trascina, una ferita che più di ogni altro fattore spinge la superdiga.

Se ci fosse già stato il grande porto quel cargo in retromarcia per girare la prua verso l’uscita del porto non avrebbe mandato la prua a sbriciolare la torre.

Mentre il partito dei diffidenti e dei contrari arma i suoi costi e i suoi benefici, mettendo il dito sull’esistenza vicinale dei porti di Prà e Voltri. E della nuova grande piattaforma, appena inaugurata a Vado Ligure. I tempi della grande costruzione sono già tutti misurati come il ricasco kolossal sull’indotto. E soprattutto sull’impegno di una forza lavoro misurata in almeno 10 mila unità.

Se si mettono insieme questi numeri a quelli degli uomini impegnati a completare, entro il 2023, il Terzo Valico ferroviario e il Nodo di Genova, calcolati in almeno 5.000, si capisce quale motore si può mettere in moto in un momento così difficile per l’economia.

La discussione è aspra e lunga. E non tiene molto conto dei tempi della concorrenza, che si vuole sfidare nei porti nord europei, scatenati a cercare di conquistare il traffico in arrivo da Suez. E oggi anche dalle nuove rivoluzionarie rotte artiche. Dove le navi da 400 metri per 60 stanno già viaggiando a ritmo limitato solo dalla crisi mondiale.

Quando tutto tornerà come prima Genova deve, invece, essere pronta. E i calcoli dicono che per costruire la superdiga ci vogliono sette-otto anni. La potremo vedere entro il 2027-2028.

A terra da dove l’opera si può solo immaginare, attraverso la discussione a tappe del dèbat public, che prevede un specie di sprint in 20 giorni, sbarcano perplessità di altro genere, non solo quelle dei costi e dei ricavi.

Preferibile un nuovo sviluppo della città o la tutela del fondo del mare?

Ci sono perplessità ambientali per l’ecosistema che potrebbe essere toccato per anni da una costruzione che sconvolgerà i fondali, coinvolgendo tutto il golfo, le coste e le spiagge.

Si immaginano queste navi monstre, attraccate sulle banchine in linea di Sampierdarena, alte il doppio delle case che si affacciano oltre Lungomare Canepa. Sui moli maggiormente interessati dalla rivoluzione.

Ci si affaccerà dalle finestre di casa e al posto del cielo ci sarà una catasta di container.

Altre perplessità arrivano dall’Enac, l’ente che disciplina il traffico aereo. Che ha già esposto il suo niet. A Ponente dell’attuale porto, a distanza di poche centinaia di metri, c’è l’aeroporto di Genova. I velivoli in arrivo hanno il canale preferenziale di discesa proprio da Levante, sorvolando le attrezzature portuali, sfiorando le grandi gru con una manovra che le aggira per poco. Se il porto si ampia e le gru crescono in proporzione alle navi, quella discesa non potrà avere la stessa direzione.

Ma Genova è un golfo di venti diversi e la sua pista di atterraggio è una sola, parallela alla costa. Se non si può atterrare da quella parte, ma solo da Ponente le limitazioni di viaggio sarebbero colossali, osservano gli esperti.

Allora nasce un aut aut: o il super porto o l’aeroporto

Ignazio Messina, uno dei più importanti terminalisti-armatori, in una recente intervista, ha tagliato la testa al toro: “ Il porto nuovo ha una importanza strategica nazionale e internazionale, l’aeroporto è locale e ha un traffico di 1 milione trecentomila passeggeri all’anno……….”.

Come dire, di fronte a un’opera così decisiva per Genova e per l’economia nazionale, il problema aeroportuale si ridimensiona. Insomma il porto sacrifica l’aeroporto.

Sulla Bilancia il più grande tifoso della nuova diga, di nuovo. Aldo Spinelli carica ancora. Il nuovo porto può portare 40 mila posti di lavoro. Se non lo facciamo rischiamo di perderne 60 mila, con la marginalizzazione storica dello scalo, che diventerebbe secondario!

Ora la partita è tutta aperta. Tra pochi giorni il dibattito pubblico sarà terminato e i suoi risultati consolidati. Entro 6 mesi Technital avrà finito il suo progetto di fattibilità. E si capirà quanto grande è il finanziamento europeo.

Genova aspetta di capire se il suo orizzonte cambia dalle banchine. Ma anche dal cuore della città, nei suo scagni diventati torri informatiche, centrali operativi di tanti traffici. Non solo container, ma crociere, oggi paralizzate dai lockdown. Ma pronte a ripartire con i loro colossi che riempiono le banchine immensi e silenziosi.

Il duca di Galliera, 150 anni fa, non aveva fatto tutti questi calcoli. Aveva aperto, come si diceva allora, i cordoni della borsa. E la città beneficiata avrebbe poi incominciato a caricare sulle chiatte tremolanti quei massi “ciclopici”, assicurando un futuro di prosperità a Genova.

Oggi la sua statua, recentemente piazzata dal sindaco Bucci su uno dei punti panoramici più vicini alle banchine, in fondo a via Corsica, punta l’orizzonte. Forse chiedendosi quanto tempo perdono i genovesi del terzo millennio.

Nella lettera di donazione il duca-principe aveva precisato. Il Governo presenti al più presto il progetto di legge al Parlamento. Varata la legge sia pubblicata. E subito dopo la pubblicazione siano cominciati i lavori e siano portati a compimento entro il termine che verrà dalle legge stabilito. In modo che il compimento delle opere più essenziali venga a coincidere colla apertura al servizio della grande Galleria del Gottardo.”

Anche oggi le nuove banchine “traguardano” più veloci vie di comunicazione, attraverso il Terzo Valico ferroviario in costruzione. E attraverso, proprio il Gottardo, che gli svizzeri hanno appena riscavato, con una galleria che aspetta solo di collegarsi con il porto di Genova.  

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