GENOVA – Sciopero Amt sospeso e forse finito a Genova, dopo quattro giorni di serrate trattative e scioperi a oltranza.
Una bozza di accordo tra Comune, Regione Liguria, Amt e organizzazioni sindacali è stata firmata nella notte tra 22 e 23 novembre.
L’accordo è sottoposto alla approvazione delle assemblee dei lavoratori. Se sarà approvato, bus e metro torneranno a circolare già dal pomeriggio di sabato 23 novembre.
Lo sciopero è durato cinque giorni, come quello dei portuali del 1900.
Alle 12:30 di sabato 23 a Palazzo Tursi, sede del Comune, il sindaco di Genova, Marco Doria, ha convocato una conferenza stampa per illustrare i dettagli dell’accordo.
Nel mitico anno 1960, 30 giugno, i ganci dei portuali genovesi arrancarono il governo Tambroni e sbarcarono dalla politica italiana la Destra postfascista. Per sempre. Nel 1961, nel palazzo Comunale genovese, oggi in pugno ai tramvieri ribelli, nacque il primo centrosinistra con l’alleanza di governo comunale tra Dc e Psi, che avrebbe conquistato il successivo trentennio italiano.
Nel 1974 a Genova sbarcò la prima giunta rossa che governo con il Pci-Psi, subito seguita da Torino e poi da Roma. Nel 1979 con la ribellione del Pci all’omicidio dell’operaio Guido Rossa, trucidato dalla famigerata colonna genovese delle Br di Riccardo Dura, Anna Maria Ludmann, Roberto Panciroli e Lorenzo Betassa (dopo qualche mese sterminati dai carabinieri nel covo di via Fracchia), incominciò la “derrata” del partito armato con la stella cinque punte. Anche in quel caso la linea la dettò il capoluogo genovese.
E allora al quinto giorno di sciopero continuato dei tramvieri, quando alla protesta si sono uniti i netturbini, gli operai della manutenzione pubblica, i camalli della Culmv e quando nel corteo ennesimo che trapassa una città sempre più stordita si infila Beppe Grillo, genovese, e cerca di appropriarsi della ribellione, una domanda rimbalza oramai da un muro all’altro: ancora una volta comincia tutto da qua e si sparge per il Paese in ginocchio tra crisi istituzionali, battaglie politiche e grandi catastrofi, come quella della Sardegna che per Genova è l’isola di fronte?
Tira un’aria pesante, alla fine della giornata genovese, quando oramai tutti i riflettori si sono puntati su questa città paralizzata. In corteo c’erano anche le delegazioni dell’Atac romana e di altre Municipalizzate o per meglio dire società partecipate dai Comuni italiani, che lottano oramai su un fronte comune contro la formula che è diventata lo spauracchio da abbattere ovunque si parli di deficit municipale: la privatizzazione.
Ci sono cinque finestre illuminate nel palazzo della Prefettura, dove per tutto il pomeriggio e la sera continua una trattativa disperata tra il prefetto Giovanni Balsamo e le istituzioni, con in testa il sindaco Marco Doria e dall’altra parte i sindacalisti. Come trovare una via d’uscita, quando il Consiglio comunale, in seduta “chiusa” al pubblico per la prima volta nella storia repubblicana, ha messo una lapide sulla soluzione comunale al crak dell’Amt, varando la delibera che ha scatenato il putiferio e che parla di “interventi privati”?
Come sbloccare una città dove i bus sono in rimessa da cinque giorni, i cittadini vagano come anime perse su e giù per le colline, le strade in saliscendi di una città in salita, dove c’è gente che monta sul taxi e chiede all’autista di farlo scendere quando il tassametro arriva a 10 euro, che più in tasca non ne ha, dove l’assenteismo da mancanza di trasporto pubblico sta salendo a percentuali preoccupanti, dove malgrado tutto questo l’incazzatura globale è ancora contenuta e lo spirito di sopportazione congenito sta ancora dentro agli argini. E per forza: questa è una città di meno di 600 mila abitanti, dove ci sono quasi 300 mila pensionati e trentamila immigrati. I pensionati possono stare a casa e gli immigrati, maggiori fruitori dei trasporti pubblici e sopratutto dell’unica linea di Metropolitana, non alzano certo la bandiera della rivolta contro il sindacato.
La trattativa notturna prevedeva prima un intervento della Finanziaria regionale, la Filse, pronta a versare i suoi capitali nella voragine Amt, in cambio di una immobile pregiato di proprietà del Comune. Quanti soldi e per tappare quanto in un bilancio che ad oggi certifica il buco dell’azienda dei trasporti, che non si salva né con i sacrifici dei lavoratori per tutto il 2013, né con i tagli delle linee e dei mezzi che stanno riducendo il pubblico servizio a un contagocce di trasporto.
Ma poi è spuntata una soluzione più complessa con la Regione che si impegnerebbe a varare al più presto la nuova legge sul Tpl e il Comune pronto a versare nelle casse dell’Amt 4,3 milioni di euro nel 2014, con una manovra complessa che comprende anche un altro subappalto per coprire i servizi nelle linee del trasporto collinare. Con altri tagli ai salari?
Ecco il punto nel quale la trattativa si è fermata. Con i lavoratori già convocati per discutere sabato mattina in assemblea.
Stanno accese per ore le luci di quelle finestre affacciate sull’ombelico della città con gli operai più duri che aspettano di sotto, le troupe televisive appostate, il passeggio del venerdì sera nella centrale via Roma, che arriva in Prefettura, ridotto ai soli curiosi e ai giornalisti accampati nel bar Mangini, quello con gli eleganti tavolini dalle tovagliette gialle, che ha perfino una sala intitolata a Sandro Pertini, il quale da direttore de “Il Lavoro” veniva a prendersi il caffè.
E nelle rimesse con i bus fermi, a Staglieno e a Sampierdarena, gli altri tramvieri aspettano di riunirsi nell’ultima assemblea per decidere come continua lo sciopero selvaggio e a oltranza. Sabato mattina tutti fermi, nel pomeriggio non si sa perché se passa la soluzione della notte…domenica chissà, lunedì a Roma a portare nella capitale una protesta che sta trasformandosi appunto in una barricata nazionale…
Mentre Grillo si infila nel corteo, beccandosi anche qualche fischio e annuncia i suoi diktat anti privatizzazioni e non gli par vero di parlare in dialetto zeneise, farcendo di compiaciuti “belin” le sue dichiarazioni, dall’alto piove la notizia che il governo da Roma ha messo nel pacchetto anti crisi misure di emergenza come la vendita del 40 per cento di Fincantieri, la grande azienda che nel principale stabilimento genovese di Sestri Ponente costruisce da un secolo e oltre le più belle navi.
Ecco la bestemmia che ricompare: privatizzazione. Via i tram, via un pezzo di cantieri che qui è come dire via un pezzo del cuore operaio di Genova, uno degli ultimi rimasto nella ex capitale dell’industria parastatale, via le banchine del porto, che dagli anni Novanta sono privatizzate, cedute con i terminal alla nuova genia di imprenditori marittimi, che, appunto, si chiamano terminalisti…Ecco che tutto si salda e le assemble della ribellione si tengono anche nella storica Ssala Chiamata del porto, nella sede della Culmv, dove i portuali sono pronti alla protesta da mesi, muti, preoccupati, tesissimi.
La crisi ha drasticamente ridotto il loro lavoro, che la privatizzazione ha trasformato dall’esclusiva assoluta del monopolio durato fino a quindici anni fa, in una prestazione d’opera sempre più saltuaria. Dopo la guerra erano diecimila, prima della privatizzazione erano meno di cinquiemila i camalli e ora arrivano a stento al migliaio e non c’è più lavoro per tutti.
C’è qualche giorno dove li chiamano tutti a scaricare le navi kolossal del neogigantismo marittimo, per cui stanno progettando di costruire un porto molto più grande, e le loro forze non bastano, ma nella maggior parte delle giornate più della metà se ne sta a casa a aspettare invano quella chiamata.
E’ un mondo che sta a girando quello di Genova, intorno a quelle cinque finestre illuminate della Prefettura, comunque finisca la trattativa. E’ un girotondo che, alla fine come per i bambini, tutti giù per terra.
Casca un modello industriale imprenditoriale sorretto da un sistema politico, che non sa più neppure schierare uomini capaci di affrontare una trattativa tanto delicata. A fianco del prefetto c’è sopratutto questo sindaco espresso da forze della sinistra radicale, in contraddizione con la sua storia nobiliare e dai lombi patrizi, Marco Doria, comunista di formazione politica, borghesissimo di vita, fino a due anni fa tranquillo professore di storia delle Dottrine economiche, improvviso vincitore delle Primarie del centro sinistra, che spazzarono via le due generalesse del Pd, la pasionaria Marta Vincenzi e la generalessa ( nel senso che è stata presidente della commissione Difesa del Senato) Roberta Pinotti. Oggi questo sindaco che mai a Genova, città retta dalla sinistra oramai da un trentennio abbondante, ce ne era stato uno più a sinistra di lui per la sua provenienza di ex Pci passato a Rifondazione, si trova nella incredibile posizione di impugnare una politica quasi tatcheriana nella vicenda delle aziende ex municipalizzate. Ha voglia a sentenziare con i toni da prof di economia che per il 2014 di privatizzazione non si parlerà ancora, i tramvieri gli urlano buffone, lo accusano di avere tradito il suo programma di governo municipale e lui non fa un passo davanti, nè uno dietro. Resta lì, pallido e teso, sempre più teso.
L’ uomo forte della città, della Regione, di tutta la politica locale negli ultimi decenni genovese, il cinquantanovenne Claudio Burlando, che è stato pure ministro dei Trasporti nel primo governo Prodi, sta scantonando da questa trattativa e la lascia nelle mani di Doria e dei suoi assessori. Troppo impegnato a cavalcare l’onda del momento nel suo partito Pd, che segna la sua conversione nelle fila di Matteo Renzi dopo una vita non da mediano ma da dalemiano.
In questo quarto giorno di sciopero a oltranza a Genova, oltre a Grillo, è arrivato anche Pierluigi Bersani, nella città che fino a un anno fa era considerata la più bersaniana d’Italia per il risultato delle Primarie nazionali. E l’ex segretario nazionale Pd non ha mancato di riservare una battuta sarcastica al governatore Burlando che lo ha tradito così di recente: “Cosa volete_ ha detto agli intervistatori che lo incalzavano sul tema delle fedeltà alla sua linea_ questi vanno dove li porta il cuore…”
Ma dove batte il cuore di Burlando, che preferisce stare al coperto della durissima vertenza, magari per saltarci dentro all’ultimo secondo, quando si profila una soluzione?
Girotondo dal quale rischia di cascare, oltre a quel modello di sviluppo che il consenso intorno al Pd e al centrosinistra teneva incollato con lo sputo da anni, con la saliva di un clientelismo spalmato all’infinito, sopratutto nelle aziende municipalizzate, la giunta dello sventurato Marco Doria.
Il Pd cuperliano, secondo i risultati di solo una settimana fa, sta soffrendo il supplizio di Tantalo, perché per la prima volta nella sua storia, intesa come tradizione dal Dopoguerra a oggi, sta perdendo la presa popolare o meglio vede quella presa che si era già allentata da anni, andare via a bordo di quel tram della protesta incontrollata, imprevista, senza nessuna targa del partito.
Attaccatevi al tram verrebbe da dire ai dirigenti di questo partito, dove convivono tante anime genovesi, quella storico-governativa che schiera ancora dirigenti ottantenni, settantenni-sessantenni, come Pietro Gambolato, Graziano Mazzarello, Mario Margini, sempre alla ribalta malgrado tutto, quella cavalcante il potere attuale dei Burlando, di alcuni dei suoi assessori, magari anche rampanti o in bella mostra, come l’avvenente assessore alle Infrastrutture regionali, Raffaella Paita, già designata successore di Burlando stesso da lui medesimo alle Regionali del 2015, infine quella dei “giovani turchi” o renziani e cuperliani o chissà che altro, che reggono la barra da soli in Comune, come Simone Farello, Giovanni Lunardon o come il deputato Lorenzo Basso, uno dei delfini genovesi di Letta, cattolico che sguscia più lontano che può dai binari di questi tram fuori dal controllo di partito.
Il tema è: e se cade Doria, con tutto il clangore di una sconfitta che il Pd ha cercato di tamponare praticamente dal giorno della dèbacle nelle primarie del febbraio 2011?
Ai genovesi, appiedati da cinque giorni, vaganti nella coda del traffico privato imbottigliato o esasperati o rassegnati, questo non interessa. Vedono incrinarsi tutte le certezze del passato e sembra quasi che stia passando una di quelle onde che spesso scavalcano perfino con la schiuma la diga foranea, la grande barriera del porto, in faccia alla quale, sette mesi fa si schiantò la Jolly Nero, la portacontainer della Flotta Messina che distrusse la Torre piloti e falciò nove vite in una tragedia senza precedenti e con molti significati simbolici.
Ecco, Genova che vaga per le sue strade e vede passare i cortei dei tramvieri, dei netturbini, dei camalli, degli altri operai e domani ci saranno gli studenti e dopodomani quelli delle Fincantieri, sembra proprio senza pilota.
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