Non era forse mai accaduto nella millenaria storia della Chiesa genovese che il suo clero esprimesse, in uno stesso periodo storico, quattro cardinali, quattro principi di Santa Romana Chiesa, pronti a sedersi assieme nel prossimo Conclave, quello per il quale in Vaticano si stanno combattendo battaglie senza esclusione di colpi.
Sembra di essere tornati indietro di secoli e proprio mentre nelle più segrete stanze si celebra il processo al maggiordomo infedele, Pietro Gabriele, il primato genovese si perfeziona.
Il prossimo Concistoro chiamerà ad indossare la porpora e tutte le relative insegne sua eccellenza monsignor Francesco Moraglia, oggi Patriarca di Venezia, cinquantaseienne genovese della nidiata Siri, passato come un fulmine per la Diocesi di La Spezia e Luni, dopo una anonima carriera all’ombra della Curia genovese, diventato arcivescovo in Laguna dopo un “cannone” della Chiesa, Angelo Scola, colui al quale hanno affidato la diocesi di Milano e la successione “normalizzatrice” di grandi personaggi come l’appena compianto Carlo Maria Martini e Dionigi Tettamanzi.
Un monsignore mite, Francesco Moraglia, di grandi e profondi studi teologici, di un servizio più da dottore che da pastore, se non nel periodo spezzino, scelto da Tarcisio Bertone, in barba a una concorrenza fortissima, che elencava calibri come Gianfranco Ravasi, il fine intellettuale, Bruno Forte l’acuto vescovo di Chieti e Vincenzo Paglia, uno dei fondatori della Comunità di sant’Egidio .
La chiesa di Venezia, punto nevralgico nella storia tra Occidente e Oriente, non ha una cattedra qualsiasi, basta pensare che laggiù si sono assisi il cardinale Angelo Roncalli, futuro Giovanni XXIII, il papa buono e una quindicina di anni dopo Albino Luciani, il papa che ha regnato solo ventisette giorni, prima che una morte folgorante lo strappasse dal supremo Soglio.
La berretta rossa di Moraglia si unirà a quelle di Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, uno dei cardinali più influenti del Sacro Collegio, di Mauro Piacenza, oggi presidente della Congregazione del Clero, cioè il “ministro degli Interni” del Vaticano, ex addetto stampa di Siri negli anni Ottanta e di Domenico Calcagno, già vescovo di Savona e ora responsabile dell’Amministrazione del patrimonio della santa Sede, come dire “il ministro del tesoro” del Papa.
A questa quaterna, che si raduna sotto le insegne cardinalizie nell’arco dell’ultimo quinquennio, si sovrappone la figura di Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, arcivescovo a Genova dal 2003 al 2007, decisivo nelle ultime tre nomine, forse un po’ meno in quella di Bagnasco. Ma il record, il primato genovese, conquistato in Vaticano in un momento nel quale Genova e la Liguria possono vantare pochi record, nessuna primogenitura se non forse quella antipolitica di Beppe Grillo, l’inventore del Movimento 5Stelle, comico nato a san Fruttuoso, popolare rione del centro cittadino, ha una inequivocabile radice più lontana, germogliata nella Chiesa di Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova dal 1945 al 1987, uno dei più longevi dell’intera storia cattolica romana, il cardinale-principe per due volte “papa mancato” nei Conclavi del 1960, dal quale usci pontefice Roncalli e da quello del 1976, che stupì il mondo con l’elezione di Woityla.
E’ da quella Curia potentissima, edificata incrociando il potere spirituale con quello politico-temporale, sulle macerie della guerra, in una città da ricostruire con i mattoni, con le industrie ma anche nello spirito, sfruttando il giansenismo rigoroso dei suoi leader cattolici non solo borghesi, ma conquistando anche i lavoratori delle grandi fabbriche e inventando i meccanismo della nuova solidarietà sociale, ante Caritas, ante società no profit, che nasce quel clero capace di produrre nel lungo periodo cardinali a ripetizione.
O questa fioritura del terzo Millennio è la conseguenza di altre coincidenze storiche e il blocco-Siri sulla chiesa di Genova non c’entra?
Siri, prete di umili origini, di studi teologici solidi, ma non brillantissimi, oratore formidabile, stentoreo e tranchant nelle sue omelie e nelle sue perorazioni, nelle sue posizioni perentorie (“guai ai preti con il clergyman, via le chitarre dalla chiesa, andamento lento con tutte le riforme del Concilio…..) è stato un personaggio tale che la Chiesa stessa non l’ha ancora metabolizzato e sul quale le discussioni e le ricostruzioni non finiscono mai.
Conservatore, fieramente contrapposto al Concilio Vaticano II, ma anche preconizzatore del dialogo con Oltre Cortina. Non fu lui il primo a viaggiare in Urss senza i paramenti da cardinale, ma con una sola semplice croce sul petto, così diverso dal ruolo esercitato a casa tra turibolazioni, genuflessioni e inchini di grandi e piccoli?
Era, appunto, un principe, Giuseppe Siri, con sempre addosso tutte le insegne del suo ruolo, quella croce tempestata di rubini sul petto, dono dei genovesi di America Latina, la fascia rossa, i bottoni luccicanti sulla veste, lo zucchetto porpora. Incedeva come un principe e tuonava dal pulpito e la sua Curia nello sprofondo dei caruggi genovesi era l’anticamera del potere di allora, quello di Genova capitale industriale, città di grande porto con diecimila camalli che a lui guardavano con rispetto dalla collina di san Benigno, che da San Lorenzo, la cattedrale, non la vedi.
Aveva fondato con preti di buona volontà e che in parte, magari, da lui e dal suo rigore si sarebbero allontanati, come l’appena scomparso Don Piero Tubino, fondatore della Caritas, allora chiamata Auxilium, la “società delle minestre”, un pronto soccorso per coloro che dopo la guerra morivano di fame. I grandi di allora bussavano a quella porta, salivano quella scala di pietra dei “caruggi”, alle spalle della cattedrale, Angelo Costa, il neo presidente di Confindustria, meno vicino a lui di quanto le leggende mediatiche abbiano sempre affermato, ma anche Gerolamo Gaslini, il fondatore tanto discusso dell’Ospedale dei bambini, i Piaggio, i Fassio, i Ravano, la razza degli armatori oggi in estinzione o i Bruzzo, i Campanella, i LoFaro, genie di imprenditori scomparsi.
Bussavano discreti alla porta i grandi padroni pubblici, dell’Iri, da Oscar Sinigaglia a Rosini, a Radaelli, a Puri, a Bonino, a Peppino Petrilli a Alberto Boyer, registi del “capitalismo di Stato”. E andavano, ovviamente a baciare l’anello i politici democristiani, magari mantenendo qualche distanza come Paolo Emilio Taviani, il leader genovese che fece infuriare il centro-sinistra con il suo primo centro sinistra.
Quel blocco socio-economico-spirituale aveva la sua opposizione interna nella chiesa con base giansenista dei genovesi di poche parole, di sobrietà che oggi fraebbe impallidire il varesotto Monti, di rigore austero. C’è una lunga filiera di preti-contro, che affrontarono quel Siri tonante, deciso nelle sue chiusure, anatemico contro i trasgressori, supermediatore e arbitro terreno non solo delle anime.
Grandi preti come Franco Costa, che divenne assistente generale della Fuci, poi assistente dell’Azione Cattolica, braccio destro di Paolo VI, vescovo di Crema e poi di Emmaus, ma che dovette “uscire” da Genova; come Emilio Guano, diventato vescovo di Livorno, mente sottile, animo trascinante; come don Viola, umile e silenzioso, che resistette in “casa”, come i ribelli frontali, don Antonio Balletto, grande studioso che se ne andò a Albenga; come quelli della comunità del Gallo, una rivista molto polemica, chiaramente conciliare, che radunava la dissidenza all’ombra di personaggi come Cornelio Fabro e preti come padre Lucio dell’Ordine dei Filippini.
Poi ci furono i ribelli dichiarati, come il prete di Oregina, Agostino Zerbinati, che celebrò matrimoni anti concordatari e perciò in quei tempi proibiti, sul sagrato di quella chiesa “magica” sul tetto del porto e venne sospeso “a divinis”, tra tumulti di rivolta e i “camillini” che si riunivano in quella chiesetta di san Camillo, nel centro a due metri dalla statua di Balilla, il Giovanni Battista Perasso della pietra lanciata contro gli invasori austriaci del Settecento, all’urlo di “che l’inse”, ribelle lui, come loro, cattolici fedelissimi in parte arrivati da quella che si chiamava allora GS, Gioventù Studentesca, fondata da don Giussani il futuro padre di Comunione e Liberazione.
C’era il mite, fin troppo con i suoi studenti, don Giacomino Piana che sarebbe diventato l’ispiratore dolce e silenzioso di una intera generazione di contro Siri. C’era, sopra tutti e prima di tutti”, padre Nazareno Fabretti, il frate della grande ed ecumenica chiesa dell’Annunziata, che riempiva le navate fin oltre il porticato a colonne e predicava forte e chiaro in distonia, accusato di modernismo per le sue conferenze seguitissime e ardite. Emigrò anche lui.
E poi ci sono quelli che mai hanno parlato un po’ per lontananza, un po’ per stile e distanza da quel cardinale troppo deciso, come Giovanni Cereti, illustre famiglia genovese, che preferì andare lontano lontano e che oggi può raccontare molti particolari dell’era del Siri trionfante, con tutte le trombe della liturgia pre conciliare, ma anche abile, diplomatico, fortissimo all’ombra di un P apa come Pio XII che lo voleva suo successore a tutti i costi.
Oggi don Cereti lo trovi in un posto d’incanto di Roma, sulla stessa riva di Oltretevere del Vaticano, nella Abbazia di san Giovanni Battista dei Genovesi, rettore di una confraternita che conta oltre 500 anni di storia e una tradizione inveterata di assistenza, un tempo ai marinai che sbarcavano nel porto romano, a due passi dalle mura di questo scrigno di capolavori e di storie infinite e oggi ai bisognosi di questo tempo difficile. Coincidenza del destino, il patrimonio che ha sfidato i secoli viene dalla eredità di Meliaduce Cicala, genovese, laico e in gioventù anche corsaro, negli anni della maturità (a quei tempi la vita era più breve e li morì, ricco, a 51 anni, che del Papa fu “pecuniarum depositariorum locumtenens”, una specie di ministro delle Finanze.
“Sono arrivato a Roma, ma a differenza di tanti preti non solo genovesi non ho mai pensato che stare qua mi serviva per fare carriera” racconta Giovanni Cereti con lo stesso sguardo limpido che aveva ai tempi della tempesta Siri che per lui non era tale.
Si è sempre occupato di comunità e associazioni che stavano vicino ai più deboli, il Cereti dai magnanimi lombi, fattosi prete sotto Siri e ha scritto, ha scritto libri anche ribelli come quello che discute le regole del matrimonio religioso, dopo i fulmini e gli anatemi di Siri e dei siriani sui trasgressori delle regole vaticane.
Ha scritto anche contro gli evasori delle tasse, “peccatori pericolosi”, ma anche interviste teologiche sui temi oggi brucianti della Chiesa del futuro e ieri quasi blasfemi, ha scritto di ecumenismo, di dialogo interreligioso, di battaglie sulle quali magari quel Siri tuonante avrebbe ancor più alzato la voce stentorea dal pulpito di san Lorenzo o da quello delle Vigne o dalle grandi parrocchie borghesi, in pugno ai suoi preti di ferro, parroci tutti d’un pezzo, come il mons. Paolo Crovari di santa Maria delle Grazie a Castelletto, l’oggi monsignor Borzone della parrocchia dell’Immacolata in via Assarotti.
Cereti oggi sorride rievocando quell’epoca e la sua “partenza” in silenzio da Genova negli anni Settanta, dopo cinque anni di insegnamento di religione nel liceo Cristoforo Colombo di via Bellucci, sotto la chiesa del Carmine, dove don Gallo, altro prete ribelle, aveva incominciato la sua contestaztione contro il cardinale che lo “sradicò” da quella chiesa-cerniera tra i caruggi e la borghese Castelletto, il quartiere dei cattolici più giansenisti che ci siano: i Costa, i Dufour, le grandi famiglie di un capitalismo familiare oggi raccontato sui libri, sempre vestito di grigio e di blù, sobrio, ma con la villa in Riviera o nelle tranquille campagne di Oltre Appennino.
“Decisi di andare in Africa, nella Repubblica Centro Africana in una diocesi mministrata dai Padri Capuccini liguri che riuniva frati di sette provincie e che contava due milioni di abitanti”, racconta Cereti. “Ho visuto tre anni in mezzo ai pigmei in un ministero che potevo esercitare in tutta libertà.”
Ma questo ministero e questa evangelizzazione avevano i loro problemi immensi, se Cereti dovette arrendersi di fronte alla constatazione che la “politica verso quella emergenza umana tanto vasta veniva decisa in Europa con scelte distanti. Noi facevamo un lavoro di retroguardia in mezzo a una popolazione sterminata che viveva come nel Settecento.”
Ritorno in Italia dopo quella esperienza, che deve avere lasciato nell’anima del missionario partito dalla diocesi-roccaforte di Siri segni e ricordi indelebili, ma dove?
“ A Genova Siri era un po’ “geloso” di me, in un certo senso anche affettuoso” confessa il rettore dei Genovesi, “non certo per il potere che potevo rappresentare, ma perchè ero diventato il punto di riferimento di molti ambienti cattolici a cui lui teneva molto. Celebrai i funerali del marchese Chiavari, che allora era il presidente del molto riservato Casino dei Nobili di Genova e Siri non gradì. Avrebbe voluto celebrarli lui quei funerali…..”
Insomma, don Giovanni Cereti si rende conto che Genova per lui è scomoda. D’altra parte aveva già misurato, lavorando a stretto contatto con il suo cardinale, le idee decise e rocciose e l’impossibilità di una discussione. “Quando Siri parlava o alzava la mano, nessuno poteva obiettare e anche se il dialogo poi era possibile con lui, la linea diventava intransigente.”
Prima della missione africana il giovane Cereti, figlio di Carlo, insigne professore dell’Università di Genova, autore dei manuali giuridici sui quali si sono formate più generazioni di avvocati, magistrati, giuristi, aveva addirittura collaborato con il suo arcivescovo nell’ufficio stampa della Curia e tra i suoi compiti c’era quello di accompagnare Sua Eminenza all’incontro con i giornalisti nella ricorrenza di san Francesco di Sales, santo protettore della categoria.
Si erano conosciuti bene, quando Cereti si occupava ancora da laico del Movimento Studenti per tutta la Liguria e si era creato un legame personale tra quel giovane studente non ancora sacerdote e l’arcivescovo potente. Il tramite era il “mitico” segretario di Siri, monsignor Bartolomeo Pesce, che era anche direttore spirituale di Sua Eminenza.
“Di fronte alle durezze del cardinale, Pesce mi spingeva a considerare che si trattava di un amore forte verso la Chiesa, di convinzioni radicate in un uomo generoso con tante doti. Un uomo e prete che credeva in modo incrollabile”. A Cereti, che illustrava i problemi della comunicazione moderna dal punto di vista dei teologi ai giornalisti, durante la festa del loro patrono, citando magari grandi scrittori francesi, il cardinale rimbrottava: “Citi i francesi, non lo sai che i francesi sono tutti pazzi”. Precisando però che se i francesi sono pazzi, “i tedeschi sono pazzi e cattivi!”
E alle obiezioni dello studente, poi consacrato sacerdote nel 1955, a un anatema troppo esteso per giustificare i grandi contributi della chiesa tedesca e francese, Siri sbrigativo opponeva: “ Ma poi, per grazia di Dio, ci pensa la Provvidenza e ci pensa Roma capitale. Ricordati sempre che la Chiesa è prudente.”
Deve essere stato molto difficile per chiunque “resistere” a un cardinale tanto deciso nelle sue idee, nella sua prassi, ma per Cereti, che veniva da una solida famiglia anche influente, forse c’era qualche arma in più.
Cereti ricorda quello che già si conosceva attraverso il libro di Benny Lay sul “Papa Mancato”, ma che molti hanno dimenticato: “Siri mi autorizzò a rivelare che per ben due volte il papa Pacelli, Pio XII per due volte gli chiese di diventare segretario di Stato, lasciando la Curia di Genova, nel 1954 e nel 1957 e che per due volte lui rifiutò, spiegando che era molto più importante restare arcivescovo di Genova che diventare segretario di Stato in Vaticano”.
Quella storia semi sepolta racconta anche che, parole ancora di Cereti, Siri finalmente accettò l’offerta nel 1959, ma proprio in quei giorni Pacelli morì, mandando in fumo un piano che prevedeva non solo il cardinale di Genova alla segreteria di Stato Vaticana, ma anche il successore a Genova di Siri nella figura del cardinale Raimondo Spiazzi, domenicano, un prelato poi molto discussso per la sua vicinanza politica ai movimenti dell’estrema destra attraverso il fratello, il noto Amos Spiazzi, protagonista di inchieste e processi a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta.
Che Giuseppe Siri, allora poco più che cinquantenne, fosse “il delfino” di Pio XII lo dimostrano altre indiscrezioni che Cereti conferma: il pontefice era talmente convinto del fatto che il suo successore dovesse essere il cardinale genovese che voleva addirittura designarlo direttamente, senza far passare la nomina attraverso il Conclave che si sarebbe tenuto dopo la sua morte, così come era sempre avvenuto, a ogni morte di Papa, da quasi duemila anni. Pio XII sarebbe stato anche disposto a modificare le leggi vaticane per imporre quel nome, capovolgendole del tutto.
Fu il cardinale francese, decano del sacro Collegio, Eugene Tisserant, a convincere il Papa della impossibilità di una mossa simile. “Sarebbe una decisione che sovverte una tradizione troppo forte nella Chiesa”, aveva osservato Tisserant e alla fine Pacelli aveva ceduto.
Siri stesso era convinto di succedere al “suo” Papa. Nelle memorie finora tenute nel riserbo da Cereti ci sono episodi, allusioni anche “minime”, che confermano quella convinzione.
“A un certo punto dalla liturgia vaticana, dal cerimoniale nelle grandi celebrazioni, racconta Cereti, fu cancellata l’usanza di che il manto dei cardinali durante le più importanti ricorrenze, la “cappa magna”, fosse tanto lungo da fare uno strascico, una coda che veniva sorretta, durante gli spostamenti nelle sacre funzioni, dai sacerdoti dello stesso cerimoniale. A chi protestava per quella semplificazione, che avrebbe anticipato tante altre “riduzioni” del Concilio Vaticano II, Siri aveva risposto allusivo, almeno in una occasione, di stare tranquilli < che le code sarebbero tornate presto…..>.
Come a ribadire che lui le avrebbe fatte tornare. Da Papa.
Questa convinzione di assurgere al Supremo Soglio l’arcivescovo genovese la manifestava anche dopo l’elezione di papa Roncalli e la sua personale sconfitta, con i suoi atteggiamenti indefettibili e nel suo portamento. “Era ieratico e sicuro della sua capacità di soggiogare gli interlocutori, anche se spesso sbagliava le citazioni e commetteva errori clamorosi”, racconta ancora Cereti, rievocando come quella convinzione si fosse mantenuta almeno fino alla elezione che doveva indicare il successore di Paolo VI nell’anno 1977.
“Accadde invece che dopo Montini i cardinali decisero, tra il cardinale Benelli e Siri, che avevano raccolto la maggioranza di voti nelle prime tornate, di puntare su Luciani e il genovese uscì dal Conclave, nel quale era entrato sicuro papa, ancora come cardinale.”
Il racconto di Giovanni Cereti rievoca le discussioni che avvenivano nella Curia genovese “dominata” dal suo potente e longevo arcivescovo come scontri che potevano essere frontali o che, invece, avvenivano senza una vera contrapposizione. Zerbinati, che sposava sul sagrato di Oregina preti “svestiti”, veniva sospeso e sarebbe andato a fare l’infermiere in un ospedale genovese. Cereti celebrava in silenzio e lontano da Genova quel tipo di matrimoni “proibiti”, appellandosi al diritto romano antico, ai riti della chiesa mediovale, che fondava l’unione sacra nel consenso tra gli sposi. Usava la reinterpretazione medioevale del rito e superava così le rigidità della liturgia cattolica, seguendo il filone di movimenti e associazioni come l’Equipe Notre Dame: “Ho scritto un libro sul matrimonio”, racconta ancor a Cereti, elencandone le diverse edizioni e ricordando come la Cei avesse trasmesso l’ordine di non ripubblicarlo quel libro.
Se su quei matrimoni celebrati fuori dalla legge, diventata concordataria, tra Siri e Cereti non ci furono scontri diretti, l’intransigenza del cardinale principe si poteva manifestare contro i preti “dissidenti” in altre forme: “Ricordo i miei compagni di messa, come don Franco Minuto e don Giulio Tabatini, che o tacevano in silenzio o subivano le decisioni avverse del loro vescovo, che magari imponeva di “mantenersi da soli”, punendo in questo modo la loro dissidenza.”
Nella Chiesa di Siri, capace di sfornare preti ultralealisti come il celebre don Baget Bozzo, la cui vocazione sacerdotale non c’era, ma che Siri gli aveva trasmesso per imporgli le mani e ordinarlo e abituata a digerire la dissidenza e a metabolizzarla con le scomuniche o con il silenzio, i tempi potevano essere duri e inesorabili.
“Che si poteva fare”, si chiede cinquanta anni dopo don Cereti, da rettore dell Abbazia dei Genovesi, “quando le grandi novità che avrebbero dovuto fare parte della enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, che avrebbero portato una svolta sui temi della contraccezione, dei matrimoni misti, sulle ordinazioni degli sposati, venivano bocciate pur raccogliendo la maggior parte dei voti vescovili. Settantatre voti a favore, tre contro eppure quelle novità sono state sepolte”. “Paolo VI per non contraddire Siri aveva deciso per il no, tale era l’influenza del “papa mancato”.
Si può alla fine chiedere come abbia alla fine retto la Chiesa di Genova su quella rocca di Siri e poi abbia mantenuto la sua forza, il suo tessuto connettivo, il collegamento con il proprio territorio, fino al punto di sfornare oggi, a venticinque anni dalla morte del cardinale-principe, quattro genovesi nel sacro Collegio, tutti o quasi usciti dal cilindro di quella formazione dura e pura?
“A Genova c’è un giansenismo che tiene e che ha mantenuto solida la base cattolica, sfruttando bene i valori di una società laica e religiosa con spirito forte e tradizioni incrollabili”, spiega Cereti. “Mio padre, molto fedele, molto cattolico, andava a Messa tutte le mattine, ma si comunicava una volta solo all’anno perché quella era la regola giansenista”.
E’ come se Siri, a parte la sua intransigenza, il suo credo conservatore ma immerso nel proprio tempo, avesse tracciato una linea retta, lungo la quale i suoi preti, il suo clero di ieri e di oggi hanno mantenuto le posizioni, anche con sensibilità diverse e per anni e lustri dopo di lui.
Oggi Angelo Bagnasco, da lui ordinato sacerdote in San Lorenzo, è il presidente della Cei, sulle cui spalle grava una delle responsabilità più delicate nel rapporto tra Stato italiano e Chiesa. Mauro Piacenza, che se ne andò da Genova quasi sbattendo la porta, dopo la morte del suo maestro, è uno dei cardinali più potenti. Domenico Calcagno amministra i tesori del Vaticano, dopo essere cresciuto nella Curia genovese. Francesco Moraglia, il più giovane, che serviva la messa da chierichetto a Siri nella chiesa di Castelletto, sulla storica altura che sovrasta i caruggi genovesi, è il patriarca di Venezia.
Don Giovanni Cereti sorride nella sua stanza avvolta nel legno degli antichi scaffali, affacciata sul chiostro senza tempo dell’Abbazia che ospita la Confraternita de’ Genovesi, istituita nel 1553 da Giulio III e ripete quasi serafico. “Molti preti genovesi sono arrivati a Roma con l’idea di fare carriera” dice senza nesuna acrimonia”. “Io sono arrivato qua per continuare il mio cammino di prete. “
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