ROMA – Alla vigilia dell’anniversario più doloroso della sua storia recente, Genova è stretta tra due sentimenti forti e contrapposti, proprio mentre ci si prepara a riunirsi sotto quel ponte che non c’è più in alcuna sua vestigia.
Mentre si prepara il capannone dove arriveranno i parenti e gli amici delle 43 vittime, l’altare dove il cardinale Angelo Bagnasco celebrerà la messa, il presidente della Repubblica Matterella pronuncerà il suo discorso e mezzo Governo, o il suo fantasma, con Salvini, Di Maio, Conte, Tria, forse Toninelli, si schiererà nell’ultima passerella del suo breve regno, molte lacrime si verseranno e molte rose bianche cadranno nel punto nel quale precipitarono gli angeli, i martiri, le vittime di quel 14 agosto 2018, nella tomba immane di cemento, ferro, macerie del ponte maledetto spezzato.
Sta Genova senza più le arcate del Morandi, gli stralli, le corsie durate 52 anni su quella valle, che credeva di essere diventata moderna, con la sua costruzione a guardare il cielo sgombro, la montagne di macerie dell’esplosione fatale, i cumuli di detriti, le pile del ponte del futuro conficcate nel terreno della Vallepolcevera, la prima di queste pile non tanto lontana da quelle macerie, la polvere anche dei 24 milioni di euro spesi in diciassette anni di manutenzione, dal 1982 al 1999, fino a quando quel ponte, quell’autostrada, erano gestiti da Autostrade, allora società dell’Iri.
Dopo i Benetton e i loro soci, i privati, succeduti nella concessione avevano preferito guardare i bilanci dei seimila chilometri di autostrade, appunto date in concessione, più dal versante dei guadagni, che da quello dei costi di una manutenzione che oggi grida vendetta al cospetto dei morti e del disastro.
Sta la città, oramai quasi trattenuta nel suo respiro, pronta alla celebrazione che sta per avvenire, sospesa tra la paura di avere subito un colpo dal quale è difficile risollevarsi, con il dolore per le vittime incancellabile, i disagi non tutti superati, i danni che continuano, l’isolamento quasi insuperabile, la città intera da attraversare se arrivi da Levante e devi “buscare” il Ponente, come diceva Cristoforo Colombo, i traffici ridotti, la sensazione di città spezzata, solo mitigata nelle sue sofferenze e quel clima di Genova separata, sottoposta ancora alla maledizione di tante sciagure.
Sta la città, sospesa tra questa paura e la speranza che tutto questo sia un nuovo inizio, una nuova occasione con quel commissario-sindaco, Marco Bucci e i suoi superpoteri anti burocratici e di deroga, capaci di far ricostruire il nuovo ponte nei tempi promessi entro il 20 aprile del 2020, una specie di Natale di Genova, altro che di Roma, con quel disegno di nave nell’impalcato che già le chiatte portano nei cantieri del nuovo ponte, negli stabilimenti di Fincantieri ed ora perfino dell’Ilva di Cornigliano, in spazi noleggiati per sistemare questo tesoro di acciaio lucido delle nuove corsie, trenta metri dii superficie a forma, appunto, di carena di nave, di lucido spessore solido, altro che quel cemento sminuzzato, quei pezzi di ferro deboli come grissini del vecchio Morandi.
Eccoli luccicanti e solidi i pezzi del nuovo ponte che incominciano ad appilarsi e far sperare, a spingere l’ottimismo del nuovo che spazza i cadaveri putrefatti del vecchio. Sali nello studio-paradiso di Renzo Piano sulla collina di Vesima, al cospetto dell’ archistar, che non vuole farsi chiamare così, ma che è una specie di Vate genovese, ora il disegnatore del nuovo ponte, che si chiamerà “Per Genova”, oppure “Colombo”, oppure musicalmente “Tenco”, oppure chissà come, e lui, il Vate, accarezza i modellini, come fossero la creatura più delicata che ci sia, li incastra delicatamente uno con l’altro in miniatura, sopra le pile che là sotto stanno nella realtà costruendo in più di mille, tra ingegneri, progettisti, maestranze, animati dal fuoco sacro: “Ci metteremo un anno, un anno solo a farlo quel ponte”.
Sono ottimisti, “carichi” i costruttori del ponte, che ancora non vedi, se non in quel ciuffo di cavi, alto 37 metri, che spuntano dalla pila 9, la prima delle 18 che saranno i sostegni del nuovo arco da lanciare in questa valle dove succede tutto e dove tu contempli, nel giorno dell’anniversario, l’insieme completo della vicenda senza capire quale sia prevalente. Cosa vedi da lassù, dall’ altezza del precipizio mortale: il cielo vuoto del ponte che non c’è più, le pile delle macerie del Morandi sbriciolate, che una fila di camion porta via, in una processione di polvere e spruzzi d’acqua, dopo che un esercito di scavatrici sposta quel cadavere sminuzzato, il cantiere vecchio di questo lavoro sporco, sul quale il governo morente litigava e il cantiere nuovo e scintillante delle pile e dei nuovi impalcati, fino alle stanze dei bottoni, dentro agli stabilimenti di Fincantieri, di Salini Impregilo, del Rina, dove misurano, costruiscono, calcolano e sopratutto promettono, assicurano.
L’occhio non ti basta a comprendere lo smontaggio dell’ultima pila vecchia, abbarbicata sulla collina di Coronata e a mettere a fuoco i murales che hanno dipinto sulle grandi pareti grigie di Certosa, per testimoniare a colori la voglia di riscatto del quartiere più sotto il ponte, che ora ci arrivi anche attraverso il bypass stradale, appena costruito attraverso le case di via Porro, cioè l’inferno sotto il ponte, molte demolite, le altre in piedi e pure abitate, con la dannazione di essere a un filo dalla zona rossa e dai suoi risarcimenti, con i suoi abitanti che si affacciano alle finestre e vedono il vuoto delle macerie o quello della case ancora da abbattere, intere ma vuote, le finestre spalancate, la tovaglia a quadri in cucina e il deserto degli inquilini, che dura dalle 11,36 di quasi un anno fa.
Allora, stai sul terrazzo di via Porro a contemplare tutto questo, come Tiziana che piange ai microfoni delle Tv, supplicando di poter andare a vivere via da qua, per cancellare tutto questo che ha sotto gli occhi e nel naso e nella testa, rumori, polvere, disatruzione, o sei nelle stanze delle teste d’uovo che studiano la nuova urbanizzazione dell’area, con i rendering dei disegni futuribili, dove gli architetti hanno disegnato parchi della rimembranza, memorial in mezzo a zone verdi perfette, a edifici moderni e puliti, là dove ora ci sono macerie da asportare, dove passano lentamente i treni che risalgono dal porto con i loro container colorati? Genova sta divisa e combattuta e cerca di dare ascolto al sindaco Marco Bucci, che annuncia ben 32 concorrenti al progetto della nuova Valpolcevera, ma sente già i rintocchi delle campane di tutte le chiese che domani suoneranno insieme alle 11,35 in un concerto che farà accapponare la pelle.
E si cercherà di capire qual è il suono più forte di questi mille campanili. Magari quello del Santuario della Guardia, che sta lassù, sul Monte e che prima, da sotto il ponte, non potevi scorgere e ora che il ponte non c’è più lo vedi benissimo e magari capisci che il miracolo di avere fatto cadere il ponte nel momento in cui c’era meno traffico, sotto quel nubifragio, con le code inesistenti, è stato deciso proprio là, dalla Madonna che protegge Genova e i genovesi.
Non è solo questione di fede, ma anche di giustizia. Sarebbe anche l’ora della giustizia, della ricerca delle responsabilità, un anno dopo, tra speranza e rassegnazione e allora quella frase del procuratore capo della Repubblica, Francesco Cozzi, “Il ponte è caduto perché non poteva stare più in piedi” sembra come una sentenza anticipata, come l’annuncio di quello che il processo sfornerà. Quando? Fra un anno, quando il nuovo ponte sarà in piedi e questa scena e i campanili e le campane suoneranno diversamente e i rintocchi saranno per i colpevoli, che oggi non distingui ancora nel panorama sovrapposto del ponte che non c’è più, del ponte che ci sarà, del dolore che si mescola ancora con la polvere, il silenzio della valle, i pianti e le lacrime che ancora scendono. E non si fermano.