GENOVA – I genovesi ripartono dalle palanche, anche se sono quelle di un piacentino, un genovese d’adozione, che mettendo sull’ultimo piatto di una città alla quasi fame una settantina di milioni di euro, si è preso il 10,5 per cento di banca Carige e tra due mesi se ne prenderà, con l’aumento di capitale un’altra fetta, forse fino al 24 per cento, diventando il socio numero uno, con il peso sulla bilancia di un’altra sessantina di milioni. Si chiama Vittorio Malacalza, 75 anni, nato a Bobbio, sposato con la cugina del mitico regista Marco Bellocchio, è un imprenditore che parla poco, gioca a scopone e fa affari con un naso invidiabile e una decisione che non è genovese, perchè non ha nulla del maniman, del ruvido e ombroso humour zenesise.
Malacalza, uno che si è fatto da solo, ripartendo dalle difficoltà di un’azienda paterna, nel ramo delle costruzioni autostradali, azzoppata dalla precoce morte del genitore, uno che è salito nel mondo degli affari, prima nella componentistica per l’impiantistica industriale e in quella dell’edilizia, poi rientrando nella costruzione di autostrade, commerciando acciaio, diventando socio di Duferco di Bruno Bolfo, il colosso mondiale nel ramo del commercio di acciaio, una società oggi da quattromila miliardi di fatturato, uscendone finanziariamente “alla grande”, come si dice oggi, diventando anche un siderurgico, con la Trametal e anche un trader di prima grandezza, con alleati come la Baoostel cinese, dopo la Mag steel. Il percorso imprenditoriale del gruppo è una ascensione vero e propria nei settori più diversi e avanzati tra gli anni Ottnata e il terzo Millennio: Malacalza lavora con Ilva di Giovanni Gambardella, compra un pezzo di Ansaldo SGS, buttandosi nel ramo delle superconduzioni e diventando il fornitore anche del Cern di Ginevra, dove lavora il premio Nobel Carlo Rubia, cui fornisce i grandi magneti.
La svolta che lo fa diventare uno degli uomini più liquidi d’Italia è del 2007 quando Malacalza vende la Trametal a un gruppo bielo russo, la Mentivest di Achemetov. Si favoleggia sulla cifra che finisce nelle banche genovesi, mentre il tycoon non si ferma e vuole investire con i cinesi in un laminatoio a Ferrania, profondo entroterra savonese, dove c’era la vecchia fabbrica di pellicole. I soci della famiglia di armatori Messina non sono d’accordo e lui se ne esce.
Tutti lo cercano e lo corteggiano e lui si butta sulla Pirelli, una alleanza finanziaria che attraversa un bel po’ di traversie perchè Malacalza è duro e diretto e sta mettendo le mani sulla cassaforte di Tronchetti. Il dialogo tra l’imprenditore piacentino-genovese e il Tronchetti, milanese strasnob, diventa impossibile dopo l’iniziale feeleng: rottura e Malacalza ne esce di nuovo con un bel gruzzolo.
Tranquillo e riservato, seduto su questa liquidità, altro che il lago secco delle finanze genovesi sempre più ridotte, Vittorio Malacalza compare sempre poco in una città avara, ma piena di esibizionisti, amministra il suo impero aiutato dai due figli, Davide, che sta a Genova e Mattia, che è a Lugano. Usa sempre poche, ma appropriate parole nelle rare occasioni pubbliche cui decide di partecipare: per esempio quando gli conferiscono la laurea honoris causa dell’Università di Ingegneria fa una prolusione di due parole: “Primo bisogna avere idee, poi i soldi arrivano.” Ovviamente idee imprenditoriali.
Un discorso ancora più secco lo pronuncia mentre riceve un importante premio e gli chiedono i suoi programmi futuri: “Fare impresa, non so immaginare altro…” Ma quale impresa di questi tempi? _ gli chiedono ancora in un dibattito al quale partecipa sorprendentemente alla ultima Festa dell’Unità di Genova e lui per una volta facondo e travolgente spara sulla crisi “che è diventata un alibi perfetto per non fare, per non investire, per stare fermi.”
Tutta la città si chiede, in verità, cosa fanno i Malacanza, come è possibile che se ne stiano fermi con tutto quel liquido, sì va bene le loro aziende di superconduttori, gli stabilimenti nuovi di zecca come quello a La Spezia, dove si costruiscono quei supermagneti perchè a Genova non gli hanno trovato lo spazio sufficiente, 30 mila metri quadrati, i contatti con Ginevra, i movimenti finanziari, ma come è possibile che non ci sia nessuna novità?
Gli hanno perfino attribuito l’intenzione di buttarsi nel calcio, durante una delle vecchie crisi superate del Genoa, dopo che si era impegnato in una di quelle tempeste calcistico-economiche che potevano abbattere il vecchio Grifo, per garantire la provvisoria tenuta della storica società. Ma lui non si è neppure degnato di smentire, non ne valeva la pena.
A Genova Malacalza se ne è sempre stato riservato e coperto, sopratutto dopo che una certa lobby gli aveva sbarrato la strada per diventare presidente di Confindustria Genova, un ruolo che avrebbe ricoperto con grande ottimismo e che gli negarono perchè lo sponsor della sua scalata era Riccardo Garrone, il grande petroliere, diventato uomo dalle energie rinnovabili, scomprso tre anni fa, uno dei pochi a spingere sulla città e a non avere peli sulla lingua a denunciare “poteri occulte” e forze avverse allo sviluppo, e per questo a essere considerato “uomo contro”.
Pochi amici, dunque, ben selezionati, professionisti seri, avvocati, ma non solo, di un ristretto gruppo, i pochi ai quali confidare i progetti accarezzati come quello di dare una mano al san Raffaele di Milano, dopo il patatrac di don Verzè e poi l’assalto a Pirelli e la lunga contesa con i milanesi con la puzza sotto il naso che guardavano dall’alto in basso.
Poca mondanità nella città che intanto si sta restringendo in tutti i sensi. Un bel ufficio in uno dei grattacieli operativamente residuali della city di Piccapietra, dove una volta impazzava la Miralanza di Calimero e Italimpianti, una bella villa nel quartiere di Albaro, una bella barca, acquisto della maturità avanzata e il buen retiro di Bobbio, sopratutto nei giorni del Festival del cinema.
Tutto questo era ed è Vittorio Malacalza fino alla sera di domenica, quando è arrivato nei caruggi di Genova con i figli e i suoi avvocati più fedeli, come Andrea D’Angelo, nella sede della Fondazione Carige, abbigliamento casual da domenica pomeriggio, un bel capellino di panno blu in testa a difendersi dagli spifferi dei caruggi ed ha annunciato. “Abbiamo un preliminare di acquisto del 10,5 delle azioni Carige.”
Nel palazzo sede della Fondazione, restaurato da poco dal presidente precedente, il cavalier Flavio Repetto, quello della Novi, Elah Dufour e delle caramelle Baratti, dimissionario un anno fa, erano riuniti il consiglio di indirizzo e di amministrazione di un ente che stava totalmente ritirandosi dal suo impegno sul devastato territorio genovese e ligure dopo le altrettanto devastanti vicende che colpirono simultaneamente la banca e la Fondazione stessa: in dieci mesi è sceso dal 43 e mezzo per cento dell’azionariato Carige al 14,8 e ora, firmado quel preliminare all’unanimità, è sceso ancora al 4,5 per cento, una quota che permetterà alla Fondazione, un tempo madre-padrona della banca, a sua volta mamma di Genova, di resistere e di svolgere anche se molto parcamente il suo ruolo nella governance e di occuparsi ancora del dissecato territorio genovese e ligure.
Il prezzo versato dai Malacalza è stato di poco più di 66 milioni, quando le indiscrezioni della vigilia, raccolte con uno scoop da Massimo Minella di Repubblica, indicavano l’impegno della famiglia intorno ai cento, cento venti milioni di euro. Cifra credibile proprio alla luce del prossimo aumento di capitale di maggio, già preventivato e al quale ora la Fondazione arriva in ben altro modo che sul salvagente sgonfio del precedente equilibrio.
L’operazione, che ha spiazzato tutta la città in un momento di difficoltà epocale, tra fughe da Genova verso Amburgo della mitica Costa Carnival, la compagnia delle grandi crociere, declassamento del Teatro Stabile, declassamento dell’aeroporto, crisi politica profonda degli enti locali, ha il senso di un investimento sulla città che passa attraverso una caratterizzazione ancora genovese centrica della banca travolta negli ultimi mesi da uno scandalo enorme.
Decapitata dei suoi vertici, dissanguata nella sua patrimonializzazione, la Carige sembrava avviata, attraverso il risanamento con le forbici del nuovo amministratore, Giampiero Montani, ex Banco Popolare di Milano e la mediazione del nuovo presidente, il principe Cesare Castelbarco Albani, a diventare il boccone prelibato di qualche grande banca o di qualche gruppo internazionale al quale non pareva vero di appropriarsi dell’istituto genovese in una terra che qualoche secolo fa creò le banche proprio per la sua genetica propensione a lavorare con le palanche. Non siamo più ai tempi di Carlo V, cui i genovesi della Repubblica prestavano i soldi per fare le guerre, ma qualcosa nel dna deve essere rimasto se questa operazione la realizza un genovese per quanto di adozione.
La chiave interpretativa più immediata, mentre l’operazione si perfeziona e un po’ tutta la città dal sindaco Marco Doria al cardinale Angelo Bagnasco si compiacciono, è che Genova difende una sua peculiarietà e le resta intestato uno strumento che potrà tenere conto nel suo impiego di uno sviluppo del territorio. Ma attenzione: Il Secolo XIX, il maggiore quotidiano della Liguria, in un editoriale segnala proprio questo rischio della nuova governance: genovesizzarsi troppo, commettere gli errori che hanno sprofondato nel baratro la gestione precedente con lo scandalo che ha spazzato via Giovanni Alberto Berneschi, l’ex presidente e “doge”, accusato anche di avere avuto legami pericolosi e dannosi con quel territorio, le sue imprese, i suoi progetti, concedendo un credito troppo facile, andandosi a incagliare in tantre crisi locali.
“Non sono né felice, né triste – commenta laconico Vittorio Malacalza, mentre risale dai caruggi dopo la storica firma – lo abbiano fatto per la banca, per la città e per noi che non siamo un ente di beneficenza, dopo avere visto bene i numeri”.
Poche ore dopo il titolo Carige in borsa fa un bel balzo e sale dell’ 8 per cento. I primi calcoli dicono che i malacalza nella prima giornata dopo la firma hanno già guadagnato una decina di milioni di euro. Le palanche chiamano altre palanche. E’ una vecchia legge genovese. Poi si vedrà.