Garrone a Genova oggi vuole dire Sampdoria, dopo che per decenni è stato sinonimo di petrolio. Ma il ritratto della famiglia Garrone che traccia Renzo Parodi va oltre, va all’amore spesso contrastato per la città dove la cautela del “maniman” domina e soffoca tutto. Va indietro nel tempo, ai tempi in cui il cardinal Siri chiese al fondatore della dinastia, Edoardo Garrone, di salvare il Genoa. Il Genoa sfiorò anche Riccardo, il figlio: ma il destino portava la famiglia da un’altra parte, a Ponente, oltre il confine storico di San Benigno, dove è la base etnica dei tifosi sampdoriani e dove è la base storica della ricchezza dei Garrone, la raffineria.
L’ultima sfida, frontale, ad una città, neghittosa e ostinatamente ripiegata su se stessa, calpesta il delicatissimo terreno del calcio. Costruire un nuovo stadio di proprietà della U.c. Sampdoria: condizione irrinunciabile per far compiere il salto decisivo di qualità alla squadra che la famiglia Garrone guida da dieci anni. Tra alterne fortune: un quarto posto e un effimero transito in Champions League al tramonto della coppia d’oro Cassano-Pazzini, seguiti subito dalla rovinosa retrocessione, una Caporetto di immagine e di bilancio (bruciati oltre 30 milioni di euro), fortunatamente riscattata dal rientro in serie A a strettissimo giro di posta, l’estate scorsa.
Un vecchio cavallo di battaglia di Garrone, lo stadio di proprietà. Lanciato appena insediato alla presidenza da Riccardo Garrone, Duccio per gli amici, patron della Erg, il maggior gruppo industriale italiano del settore energetico. Un progetto rimbalzato contro una raffica di no sparati a mitraglia dalla contraerea sempre puntata dei poteri forti genovesi. Pronti a scaricare una micidiale sventagliata di veti incrociati su chiunque si azzardi a turbare la cimiteriale quiete nella quale galleggia, sempre più boccheggiante, l’ex Superba.
La città che fino alla Grande Guerra, oltre che il maggior porto nazionale, era la capitale della finanza italiana. Quella Genova che ai tempi della gloriosa Repubblica di San Giorgio fondò la prima banca al mondo, inventando – lo ha ricordato Beppe Grillo un istante prima di attraversare le acque insidiose dello Stretto di Messina – il debito pubblico, i bond e tutto l’armamentario della moderna finanza che sta trascinando a fondo il pianeta.
Rincorrendo un’opzione dopo l’altra (Trasta, Aeroporto, Colisa: le poche aree utilizzabili in un tessuto urbano super congestionato e stretto fra monti e mare) il progetto stadio lanciato da Garrone senior si era arenato. Nel tripudio del tifosi del Genoa, ostili (eufemismo) a qualunque progetto che comporti l’addio allo stadio Ferraris, l’impianto sulle sponde polverose del torrente Bisagno che in un tempo (remoto) vide le gesta del Genoa dei primi scudetti.
«Il nuovo stadio è fondamentale – ha dichiarato il figlio di Duccio, Edoardo Garrone, vicepresidente esecutivo della Sampdoria – fa parte di un progetto di rafforzamento della società, come il potenziamento del centro sportivo e la costruzione di una rete che possa individuare giovani promesse in giro per il mondo. Cerchiamo di realizzare un nuovo modello di Sampdoria che possa competere, nonostante la differenza di ricavi, con i grandi club. Questi progetti porteranno risultati nel medio e lungo termine».
Obiettivo dichiarato: la Champion. Quasi un’eresia. «Il nuovo stadio? Quando la legge ce lo consentirà allora ci impegneremo a farlo. Ribadisco, l’importante non è dove farlo, ma farlo», ha ripetuto il padre, che nonostante la malattia (superata) conserva la carica di presidente del club, avendo lasciato al figlio primogenito i compiti operativi.
«Il nuovo impianto dovrà essere una struttura in grado di rilanciare l’immagine attualmente appannata di una città che resta bellissima», ha detto Garrone junior alla Gazzetta dello Sport. In caldo c’è un progetto preliminare firmato dall’architetto Stefano Boeri. L’area individuata è nella zona della Fiera del mare. In attesa dell’approvazione della legge sugli stadi (passata alla Camera, si è incagliata al Senato), è scattato il canonico dibattito cittadino. Un deja vu, alquanto sterile. La volontà politica di dare via libera al nuovo impianto difficilmente quaglierà. Sebbene l’operazione non costerebbe un euro di denaro pubblico. Ma tant’è…
Il calcio, già. Tutt’altro che una scelta di vita per la famiglia Garrone. Il prodotto, semmai, di una serie di fortuite (e fortunate, precisano i tifosi blucerchiati) coincidenze. L’esito inatteso e sorprendente di un bizzarro incrocio di situazioni rimbalzate tra le due sponde calcistiche genovesi. Con l’aggiunta, tutt’altro che marginale, di una postilla che sarebbe risultata dirimente – ma in senso ostativo – se le circostanze non avessero congiurato a cancellarla.
E dunque la sciarada che ha consegnato la famiglia Garrone e la loro azienda, la Erg, al pallone che rotola, comincia con una promessa, fatta a se stesso da Edoardo Garrone, il capostipite della dinastia: “Mai acquistare squadre di calcio. Mai acquistare giornali”.
Piemontese di Carpeneto (Acqui) Edoardo Garrone, classe 1906, ingegnere chimico, nel 1938 aveva fondato a Genova la Erg (dall’acronimo: Edoardo Raffinerie Garrone), specializzandosi nella raffinazione del petrolio. Garrone si era insediato in Valpolcevera, l’area industriale genovese per eccellenza. Uscito malconcio ma vivo dagli interrogatori delle SS che lo sospettavano di aver fornito benzina ai partigiani genovesi, nel dopoguerra aveva ampliato il raggio di azione dell’azienda, che aveva prosperato sulle ali degli accordi con la British Petroleum, affermandosi nel panorama internazionale.
Ma il calcio? Ecco qua. All’inizio degli anni Sessanta, Edoardo Garrone ricevette dal cardinale Siri – potentissimo cardinale arcivescovo di Genova, un principe della Chiesa due volte entrato papa in Conclave e due volte uscito con lo zuccotto di porpora in testa – la richiesta di salvare il Genoa che, come gli è accaduto spesso, navigava in cattive acque.
Siri, che in gioventù aveva giocato al calcio in una squadra genovese dell’epoca, la Spes, ed era tifoso dichiarato del Genoa, aveva pensato a lui per il salvataggio del glorioso Grifone. A malincuore, Garrone – che non aveva alcuna passione calcistica – cedette e promise a Siri di acquistare il club primigenio.
Era l’estate del 1963. Garrone partì per la Norvegia, dove lo attendeva una partita di pesca al salmone. Purtroppo non rientrò vivo in Italia. Un infarto lo stroncò a soli 57 anni. La promessa al cardinale sfumò nel lutto. Alla guida dell’azienda subentrò il figlio Riccardo. Aveva 27 anni. Del calcio si è interessato fino ai 18 anni, poi gli studi – si laureerà in chimica industriale come il padre – lo avevano assorbito interamente. L’azienda di famiglia cresceva e nel 1971 partecipò alla costruzione della raffineria Isab di Priolo, in Sicilia, uno dei maggior poli di raffinazione del Mediterraneo. Nel 2008 una joint venture con il colosso russo dell’energia, Lukoil, ha migliorato la situazione patrimoniale del gruppo, ormai orientato ad una strategia multy energy. Con sconfinamenti nelle Tlc, settore telefoni cellulari.
Il calcio è entrato nell’orbita della Erg negli anni Ottanta. Un manager romano emigrato a Genova negli anni Cinquanta, Paolo Mantovani, stava costruendo una grande Sampdoria: nel 1991 vincerà lo scudetto. Un miracolo sportivo e d’impresa ineguagliato e probabilmente ineguagliabile.
Il matrimonio tra la maglia blucerchiata e i colori della genovese Erg come sponsor nacque in via naturale. L’intesa durò un decennio e proseguì ancora dopo la morte del presidente mecenate Mantovani: all’insegna di una intesa perfetta. Erg e Sampdoria divennero un doppio-marchio conosciuto in tutto il mondo, grazie alle perfomance sportive della squadra che schierava campioni come Pagliuca, Vierchowod, Vialli e Mancini, e si avvalse a propria volta della notorietà internazionale raggiunta dal colosso petrolifero Erg.
Garrone si godette la partnership. Il feeling, personale e professionale, con Mantovani risultò a prova di bomba. Ma non lo sfiorò mai l’idea di mettere piede, attivamente, nel, Barnum pallonaro. In verità l’occasione gli si era presentata, ma, come per il padre, con i colori del Genoa.
Fine anni Settanta, la deindustrializzazione della città prende corpo come drammatica realtà. Il porto annaspa, travolto dalle guerre tra “camalli”, orgogliosamente aggrappati alla Culmv – la compagnia unica lavoratori merci varie, retaggio medievale – terminalisti ed armatori. In mezzo ai contendenti, il Consorzio, negli scomodi panni del mediatore.
I Libri azzurri della presidenza di Roberto D’Alessandro restano lettera morta. Fallisce persino la mediazione, autorevolissima, del cardinal Siri. La questione si risolverà da sé, sull’onda dei tempi. Paride Batini, lo storico console dei “camalli”, finirà per accettare che la Compagnia si privatizzi trasformandosi in un prestatore d’opera in banchina. La notte della vigilia di Natale del 1981 tacciono le sirene delle navi in porto, tradizionale saluto all’arrivo del Redentore. La ragione? Non c’è una sola nave all’ormeggio in banchina.
Agonizza l’Italsider, il colosso siderurgico che negli anni d’oro a Cornigliano era arrivato ad occupare 14 mila operai. La città è in ginocchio. Le Colombiane griffate Renzo Piano (autore del recupero-trasformazione del Porto Antico) sono ancora nel grembo di Giove e così il G8 del 2001, e Genova Capitale della Cultura nel 204. Eventi che – grazie anche a robuste iniezioni di denaro pubblico – cambieranno il volto della città e, parzialmente, la cultura indigena.
“Non saremo mai una città di camerieri” proclamano in quegli anni bui, già segnati dal terrorismo, dinosauri del Pci locale, di fronte a chi,timidamente, avanza per Genova modelli di sviluppo alternativi e si azzarda ad immaginare un futuro all’insegna del turismo.
In mezzo alle macerie della deindustrializzazione e in coda al funerale delle Partecipazioni statali che ha disarticolato l’impianto produttivo genovese, la raffineria Erg in Valpocevera, a San Quirico, marcia a tutto vapore. Il petrolio non conosce la parola crisi. Purtroppo i fumi della raffinazione dell’oro nero ammorbano il quartiere e da anni la gente della vallata reclama il trasferimento degli impianti. La giunta di sinistra guidata a Fulvio Cerofolini, socialista lombardiano, apre una trattativa per il trasferimento della raffineria genovese.
Il Genoa, tanto per cambiare, è nei guai, relegato in serie B. I tifosi rumoreggiano, il presidente Renzo Fossati è il bersaglio delle contestazioni popolari. Cerofolini, fervente tifoso genoano, si butta avanti. Propone a Garrone di acquistare il club. Garrone riflette, vacilla ma alla fine rifiuta. Anni dopo, da presidente della Sampdoria, rivelando il retroscena, l’industriale spiega quel no al sindaco: “Accettando di acquistare il Genoa temevo si dicesse che era stato il prezzo pagato nella trattativa per la raffineria”. Garrone ha presentato un piano di riqualificazione dell’area che nessuno prenderà in considerazione. Oggi i serbatoi sono spariti e hanno lasciato il posto ad una fungaia di alloggi per i poliziotti.
Educazione e indole personali lo hanno tenuto a lungo alla larga dal mondo dei “ricchi scemi”, così impietosamente vennero definiti i presidenti del calcio da Giulio Onesti, numero Uno del Coni. Duccio per gli amici, è un appassionato di musica classica – non manca una prima del Carlo Felice – un cacciatore implacabile – la riserva di Grondona è il suo habitat naturale, con frequenti exploit in Scozia e in Argentina – e un accanito tennista.
Per decenni si è alzato all’alba, estate e inverno non faceva differenza, per essere sul court senza tradire gli impegni in azienda. La (tiepida) passione giovanile per la Sampdoria era svanita. Ma il destino ha congiurato. Dopo la morte di Paolo Mantovani, nel 1993 la Sampdoria è passata nelle mani del figlio Enrico.
In pochi anni il miracolo si dissolve, la squadra precipita in serie B e all’alba del terzo millennio è avviata alla bancarotta, sportiva e finanziaria. Duccio Garrone non assiste inerte alla debacle. La rispettata memoria di Mantovani padre e il suo profondo orgoglio di genovese gli impongono di intervenire. A differenza di altri capitani d’industria non riesce a misurare il mondo esclusivamente in termini di denaro e di profitti.
In questo Garrone assomiglia a certi imprenditori genovesi del passato (la Duchessa di Galliera, Gaslini) che hanno legato il proprio nome al bene pubblico. Una squadra di calcio, si usa dire, è un patrimonio della città e in quest’ottica vagamente romantica nella primavera del 2002 si muove Garrone.
Scende in campo nei panni del garante impegnato a favorire il passaggio del club ad un nuovo proprietario. Spunta un fantomatico gruppo angloarabo, uno schermo di comodo dietro al quale si nasconde tale Antonino Pane, finanziere che sembra uscito da un film di Totò. Pane risveglia interesse dalla Guardia di Finanza che lo mette sotto torchio. Garrone ha fiutato la trappola e si cautela. La vicenda finirà in tribunale.
Ma ormai il petroliere non può più tirarsi indietro e dopo qualche sbuffo di fium per confondere i giornali, acquista da Enrico Mantovani il pacchetto di maggioranza della Sampdoria, e mette in salvo la squadra da una mortale caduta in serie C, poi si dedica alla ricostruzione. Paga tutti i debiti della società (circa 50 milioni di euro!) sottraendola al fallimento. Chiama come direttore generale Beppe Marotta (attuale plenipotenziario della Juventus) e riavvia l’orologio della storia.
Il lato buffo della storia è che nella finanziaria che detiene le azioni della Sampdoria figura al completo la famiglia Mondini. Giampiero, il cognato di Duccio, è genoanissimo, così come figli e nipoti. Tutti, tranne la figlia Monica che tifa Sampdoria, disperatamente. E allo stadio non manca una partita casalinga.
In dodici mesi la squadra ritorna in serie A dopo un esilio di cinque anni. Nel 2007 Marotta porterà in blucerchiato Antonio Cassano, geniale fuoriclasse visitato da periodiche, distruttive turbe d’umore. Garrone lo adotta come un figlio e dire che di figli ne ha sei. Lo porta a cena in villa, lo confessa, lo blandisce e gli concede i privilegi dovuti al primo della classe.
L’allenatore Del Neri, un vecchio del mestiere, ha il fegato di sbatterlo fuori squadra per qualche partita., Avverte il presidente: “Cassano farà piangere anche lei” Garrone si infuria.”Non si permetta!”. Ma De Neri ha visto lungo. Come un temporale d’estate, puntuale esplode la bomba. Stressato perché la società non gli allunga il contratto, un pomeriggio d’autunno del 2010, Fantantonio prende a male parole Garrone, davanti a testimoni, nella palazzina degli spogliatoi, a Bogliasco.
E’ il divorzio. Cassano se ne va al Milan, Garrone, sarà una coincidenza, si ammala gravemente ed esce temporaneamente di scena. Il fato si compie. La Sampdoria retrocede. Sic transit. Ma Garrone non molla, cede la stecca al figlio Edoardo e costui, fatto tesoro dei molti errori commessi (uno per tutti: cedere sottocosto Pazzini all’Inter), risale la china. L’avventura garroniana col pallone che rotola continua. E siamo al decimo anno.
Garrone è un genovese atipico, ha il cuore di un mecenate. Non si è fatto pregare quando si è trattato di lanciare il ricostruito teatro lirico cittadino, il Carlo Felice, per più di mezzo secolo ridotto ad un cumulo di macerie dai ripetuti bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. Nel 1991, completata la faticosa (e costosa) ricostruzione Garrone firma un assegno a molti zeri (si parla di miliardi di lire) ed Erg diventa sponsor istituzionale. Nel 2010 entrerà nel cda del teatro finito al limite del collasso economico.
Duccio Garrone ha un carattere duro. Poco incline alla trattative. Alieno dalle furberie della politica. Diretto e franco. Anche troppo, a volte. Come la volta che gli scappò detto che il Genoa era “la pregiata macelleria Preziosi”. Scoppiò un pandemonio ma lui le scuse non le presentò mai. Innamorato della sua città, alla quale nel corso degli anni ha offerto innumerevoli progetti. Uno per tutti: “Viva Genova”, che avrebbe dovuto rilanciare la città attraverso focus group destinati a produrre progetti e iniziative. Un sogno lasciato morire secondo la sperimentata tattica del potere politico genovese. Non dire né sì e né no. Attendere traccheggiando che il tempo faccia il suo corso e ne decreti la morte per esaurimento delle forze. E della pazienza del proponente.
Garrone ha trovato il tempo per assumere per due volte (dall’83 all’86 e dal 1998 al 2000) la carica di presidente della Associazione Industriali genovese. Nei panni del kingmaker, nel 2008 si è scontrato con l’ostilità di una parte degli associati, finendo per spaccare l’Associazione. Aveva sponsorizzato la candidatura alla presidenza di Assoindustria di Vittorio Malacalza, oggi impegnato in un duro testa a testa con Tronchetti Provera per il controllo di Camfin.
Garrone esigeva la conferma del direttore generale Paolo Corradi. Il diktat non era passato e il fronte legato alle aziende portuali e alla Carige, la potente cassa di Risparmio genovese guidata da Giovanni Berneschi (una vecchia volpe abilissimo a lavorare dietro le quinte), fece prevalere Giovanni Calvini.
Garrone sbattè la porta, furibondo, e non ha lesinato attacchi frontali a Calvini, accusato di provocare la paralisi dell’Associazione. Una polemica ripresa nei giorni scorsi dal figlio di Duccio, Edoardo, che ha invocato un deciso cambiamento di rotta dell’Associazione, ricevendo l’endorsement convinto del padre. Il quale, ceduta nel 2003 la guida di Erg ai figli Edoardo e Alessandro (rispettivamente presidente e amministratore delegato), dal 2004 presiede la Fondazione Edoardo Garrone che ha lanciato il Science Expo Center, primo polo di attrazione scientifico culturale che aprirà il 1° marzo dell’anno prossimo.
Una scommessa ambiziosa. Garrone l’ha spiegata così al Secolo XIX: «Allestiremo quattro manifestazioni l’anno, ognuna con un ciclo di quattro mesi. E saranno tutti eventi di spessore internazionale. Pochi al mondo sano coniugare scienza e aspetto ludico. A Genova porteremo solo il meglio». L’esordio sarà affidato alla mostra: “Brain, the world inside your head”. Possibile a fine 2013 l’approdo nella Superba di “Math Alive”, l’evento che a Washington ha attratto 300 mila giovani appassionati di robotica.
Con la città Garrone ha sempre coltivato rapporti tribolati. Di odio-amore verso una Genova spesso matrigna. All’insegna di quel venefico “maniman” che da decenni tarpa le ali alla Superba, tuttora prigioniera di una sindrome che è un misto esiziale di prudenza, nostalgia del passato, diffidenza per il nuovo, e ostilità giurata per tutto ciò che increspa il placido mar ligure, peraltro destinato a degradarsi a palude.
I “maniman”, intraducibile mantra che si potrebbe tradurre con “e se poi…” è la palla al piede che ha tagliato le gambe a molteplici tentativi di costruire un nuovo modello di sviluppo per la città. Tuttora impantanata nel guado tra passato e futuro, incerta anche di fronte a progetti radicalmente innovativi come il Parco Scientifico e tecnologico Leonardo: un mix di ricerca e tecnologia avanzata, residenze per scienziati e studenti, che sta sorgendo agli Erzelli, la collina che sovrasta Cornigliano e Sestri Ponente.
Un progetto che ha attirato Eriksson e Siemens. Ma non è riuscito a convincere il rettore dell’università di Genova, Giacomo Deferrari, a decretarvi il trasferimento della facoltà di ingegneria, come era stato pattuito. La Genova di sempre. Che Garrone combatte. Da solo. O quasi.
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