Elezioni 2013. La campagna elettorale continua. L’ha riaperta Pier Luigi Bersani. Senza accorgersene. Davanti alla direzione del Pd che l’ha capito benissimo. A cominciare da Massimo D’Alema che per giustificare l’ineluttabilità del compromesso ha perfino dovuto scomodare Antonio Gramsci: quanto spreco. Di questi tempi basterebbe richiamare soltanto il buon senso. Invece per esorcizzare la paura c’è bisogno di appellarsi al realismo politico del fondatore del Partito comunista e miglior esegeta di Niccolò Machiavelli. Sospettiamo che il segretario del Pd non abbia mai letto una pagina del “Principe” e neppure il commento delle “Noterelle” gramsciane al testo più attuale che ci sia in giro, anche se ha compiuto cinquecento anni.
Dall’alto della suo pressappochismo, Bersani condanna in partito e l’ Italia – mai come adesso coincidenti – all’irrilevanza, mentre Beppe Grillo, assurto più che a guru, come si conviene al lavorio di politici ed intellettuali modaioli, di giorno in giorno assume i contorni d icona dello sfascio. E, lui sì, applaude alla campagna elettorale che il leader della sinistra ha rilanciato suo malgrado.
Si corre velocemente alle urne, dopo il discorso di Bersani, come ha colto su Blitzquotidiano Lucio Fero, dunque. Con quali prospettive? Consegnare il Paese al Movimento 5 Stelle. E poi accada quel che deve accadere. Fuori dall’Europa, dall’euro, dalla storia. Per non aver voluto fare un governicchio per il tempo di varare una nuova legge elettorale contemperante rappresentatività e governabilità.
Che se ne fa Bersani dei suoi otto punti (non è riuscito a contare nemmeno fino a dieci) quando il Quirinale gli sbatterà la porta in faccia, il Pd lo caccerà a fare il guardiano del gazebo di Bettola e Renzi cercherà di trascinare il partito verso una campagna elettorale disperata? Vorremmo sapere quanti oggi, di fronte al buio bersaniano, si pongono il problema della incompatibilità con Berlusconi.
Probabilmente soltanto qualcuno della nomenclatura, mentre la maggioranza, al vertice come alla base, non aspetta altro che quel “governo del presidente”, altrimenti detto “governissimo” che possa in qualche modo evitare il trauma delle urne, si costituisca rapidamente. Tutti dentro e per un breve tempo. Non c’è alternativa. O meglio: l’alternativa è il caos, la confusione, il disastro economico-finanziario, l’accentuazione dell’impoverimento e maggiore disoccupazione.
Ci dica, Bersani, nella sua follia di inseguire Grillo che lo insulta ventiquattr’ore su ventiquattro, dove vuole arrivare? Ottenere un incarico tanto per soddisfare la sua vanità oppure dare un seguito al responso elettorale che non ha certificato la nascita di un esecutivo piddino-grillino che oltretutto non si può fare? E poi, l’incarico se lo incornicia davanti alla pompa di benzina di famiglia?
Suvvia, se i conti li si deve fare con Berlusconi, i democratici cerchino di limitare i danni e non chiedano la luna, come ha fatto D’Alema, certamente costretto dalle circostanze, assicurando la disponibilità a partecipare ad un governo con il centrodestra purché venga messo fuori Berlusconi, cioè cacciato dal partito del quale è tutto: l’hanno capito o no che il centrodestra è il Cavaliere e il resto inutile contorno? Può non piacere (a chi scrive non piace per niente) ma è così. Ed è con la realtà che bisogna fare i conti, magari limitando – se ci si riesce – gli effetti negativi collaterali.
Grillo non ha attraversato il deserto dello scontento italiano per approdare alla piccola tenda dei sopravvissuti sella Seconda Repubblica, ma per predare l’Italia dei partiti con l’obiettivo di inaugurare un califfato virtuale dagli incerti contorni. Un obiettivo, paradossalmente, leninista.
Irrealistico? Può darsi. Ma se i Bersani dovessero diventare legione sarebbe meglio la resa piuttosto di una sconfitta senza onore.
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