C’erano una volta il Pd e il Pdl… Tra qualche tempo la racconteremo così l’ultima sciagurata avventura della politica italiana. E qualcuno ci domanderà come mai la democrazia italiana si è bloccata nonostante quindici anni di cosiddetta “transizione” per elevarne la qualità.
Sarà difficile rispondere. In tre lustri sono state bruciate classi dirigenti, mandati al macero partiti storici, naufragate tante speranze. Ed il sistema moribondo sta ancora qui, ad annaspare tra bizantinismi e liti tra comari sul ballatoio, mentre non si vede neppure l’ombra di una riformetta strutturale che giustifichi un minimo di vitalità di un mondo politico afflitto da manie sucide. Si diceva del Pd e del Pdl. Le operazioni parallele e speculari erano buone nelle intenzioni. Partivano con la consapevolezza di dare alla politica italiana una forma bipolare. Volevano mettere insieme ciò che poteva stare insieme, buttando via tutto il ciarpame ideologico che ormai, dopo la caduta del Muro di Berlino, era assolutamente inservibile.
La morte del comunismo, l’esaurimento della Democrazia cristiana, la scomparsa dei socialisti e dei satelliti del pentapartito, l’evoluzione storica degli eredi del neo-fascismo, l’apparizione di un imprenditore che riesce a mettere insieme, in men che non si dica, un partito liberale di massa (o almeno una sua copia non proprio riuscitissima) autorizzavano a credere che l’Italia si sarebbe dotata di istituzioni coerenti con l’evoluzione del sistema, in sintonia con il sentire della gente, pronta a fare la sua parte in un mondo che diventava sempre più grande. L’idea del bipolarismo nasceva dalla constatazione dell’arretramento barbarico di un quadro partitico finto, eccentrico rispetto alle accelerazioni dell’economia, del costume, dell’informazione.
Bisognava uscire dalle casematte e dotare di nuovi soggetti di riferimento la società italiana che aveva voglia di confrontarsi con la modernità piuttosto che istupidirsi dietro sigle che non significavano più niente. Per farla breve, il lavorio cominciò sotterraneamente fin dalla seconda metà degli anni Novanta. Le armonizzazioni cominciavano a farsi sentire. I cartelli elettorali imposti dal maggioritario diventavano qualcosa sempre più simile a partiti politici. Ed allora perché non farli, come si deve?
Cominciarono a sinistra. La destra seguì. Di là non c’era un capo carismatico. Di qua sì. E tra elezioni vinte e perse dall’una e dall’altra parte prendeva forma il bipolarismo all’italiana, cioè un po’ storto, sghimbescio, rabberciato, frutto di compromessi piuttosto grevi, ma sempre bipolarismo era. Quando ha preso consistenza, al punto di diventare bipartitismo, la malattia tutta italiana di non saper pensare insieme e, soprattutto, in grande, si è manifestata in tutta la sua carica dirompente. Pochi mesi, dopo anni di lavorio, ed il Pd è andato a pezzi.
Neppure il tempo di celebrare la costituzione di un partito annunciato addirittura sul predellino di un’automobile, quando le bocciofile vengono fondate in maniera più seria, ed il Pdl ha immediatamente dimenticato i fasti para-televisivi di marzo per cominciare il balletto delle liti, degenerato presto in ordalia sull’aria di ire funeste che speriamo non adducano infiniti lutti politici né ai forzisti, né ai finiani,come capitò agli Achei. Resta il fatto, però, come si evince dalle uscite di tutti i protagonisti di entrambi i partiti, che la speranza della semplificazione del sistema, del rinnovamento se non proprio della modernizzazione delle istituzioni, nelle condizioni in cui ci troviamo è destinata a rimanere sullo sfondo.
Bersani ha praticamente già vinto le primarie e si avvia a vincere il congresso; a Franceschini bisognerà trovare un posto; neppure quello a Marino che si consolerà girando l’Italia con il suo libro prefato dal cardinale Martini (quando si dice che le vie del Signore sono infinite…). Più complicato sarà far convivere Rutelli nel nuovo assetto che il Pd si darà: non è improbabile una sua fuga precipitosa verso lande che ancora non si conoscono e non s’intravedono neppure dopo la lettura dell’anticipazione di un capitolo del suo libro pubblicato da Blitzquotidiano.
Sull’altro versante, il Pdl sconta il divorzio, ancorchè non formalizzato tra Berlusconi e Fini: hanno un bel dire i supporter dell’uno e dell’altro che tutto va bene ed una feconda dialettica è segno di vitalità. Ma dove, quando, in che modo? Se, come ha fatto il premier, si ufficializza una divaricazione profonda tra due i due fondatori del partito non su un aspetto marginale, ma sulla concezione complessiva della politica, di quale ricomposizione si ciancia? Certo, c’è da gestire il potere. Motivo buono e giusto, oltre che saggio, per tentare di tenere insieme ciò che insieme non può stare.
L’interrogativo è uno solo: fino a quando la finzione terrà? A giudicare dalle prese di posizione di entrambi, ma soprattutto degli ex-colonnelli di Fini passati armi e bagagli tra i berluscones, ancora per poco. Non è detto che la fine del sodalizio sia un male. Il Pdl potrà sciogliersi e tenere unite le sue variegate componenti in una federazione. Poi non si sa: nuove aggregazioni potranno aver luogo. E passerà la nottata della crisi con l’avvento della nuova legislatura che porterà novità clamorose: i nemici diventeranno amici e forse, superate idiosincrasie d’antan potranno varare quelle riforme che coloro i quali, per quanto di altra generazione, restando ancorati alla vecchia politica non hanno potuto promuovere.
Se il Pd recupererà una certa sinistra e magari, paradossalmente, non sarà più di sinistra in senso classico ed il Pdl, rinunciando agli equivoci sui quali e sorto, si darà una rinfrescata culturale (immigrazione, identità nazionale, contaminazioni, sovranismo, clima, ecc.) e si mostrasse colloquiante e aperto verso le grandi prove della modernità, potrebbe accadere il miracolo di una destra che non è più destra. Se provassero ad essere semplicemente progressisti e conservatori, credete che cambierebbe qualcosa? Il sottoscritto ci spera. Anche perché non costa nulla.
E poi, non c’è niente da perdere se Pd e Pdl, parallelamente in crisi, prendessero atto, senza frapporre indugi, che la loro stagione è finita prima di cominciare.
Ecco: ci vorrebbe un “nuovo inizio” direbbe Martin Heidegger, che non è il centravanti del Bayern Monaco, ma un filosofo letto poco ultimamente tanto nel Pd quanto nel Pdl. Anche se conoscendolo, allargherebbe le braccia e direbbe, citando il suo ultimo libro, o meglio la sua ultima intervista, “Ormai solo un Dio ci può salvare”…