ROMA – Raqia Hassan Mohammed: il sorriso malinconico e dolce stampato sul bellissimo volto della blogger siriana uccisa dai boia di Isis racconta la più eroica delle resistenze possibili a Raqqa, un tempo fiorente città siriana, oggi anticamera dell’inferno elevata a “capitale” dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. È quel sorriso, incorniciato nell’elegante hijab nero, il più struggente e radicale atto d’accusa ai criminali jihadisti che quotidianamente bestemmiano il nome di “Dio Onnipotente e Misericordioso”.
Ci soffermiamo sugli occhi luminosi di Raqia e tentiamo vanamente di penetrarne la serena sofferenza, per quanto possa sembrare paradossale. Ma lo sforzo è vano. Vi leggiamo soltanto, e non è poco, tanto amore per il suo popolo e per la libertà.
Raqia è già un simbolo che con le sole armi di Facebook e Twitter ha sfidato apertamente i neri figuri jihadisti i quali, da codardi, hanno tenuto nascosto per mesi l’assassinio della trentenne curda, l’unica donna reporter indipendente che ha descritto, senza omettere nulla, la presa di Raqqa, il terrore che la domina, i crudeli misfatti dei miliziani dell’Isis. Fino allo scorso autunno quando i gangster di al-Baghdadi hanno posto fine alla sua vita, probabilmente decapitandola, com’è nel loro costume, e la voce di Raqia s’è spenta, per riaccendersi pochi giorni fa quando alcuni attivisti che la conoscevano bene, curdi e siriani, citati dall’associazione Syria Direct.
Forse l’assassinio risale a settembre o a ottobre: lo Stato islamico, che non rilascia certificati di decesso, ha atteso fino a pochi giorni fa per dare la notizia ai genitori della ragazza, motivando la sua condanna a morte con l’accusa di “spionaggio” al servizio dei nemici dell’Islam.
A Raqqa non hanno chiuso la bocca per sempre ad una ragazza che amava talmente tanto la vita al punto da sfidare la disumanità di folli combattenti assetati di potere che la vita intendono semplicemente sopprimerla. Ma non hanno valutato, nel loro furore alimentato dalle pulsioni più brutali ed elementari, apparentemente prive di senso, che Raqia grazie ai loro colpi avrebbe fatto male più da morta che da viva, come è accaduto a tante giovani martiri in Medio Oriente ed altrove.
La morte della ragazza, nota sulla rete come una ‘citizen journalist’, che qualche volta si firmava con lo pseudonimo di Nisan Ibrahim, ha amplificato la diffusione dei suoi post. In uno si legge:
“Sono a Raqqa e ho ricevuto minacce di morte, ma quando l’Isis mi arresterà e mi ucciderà sarà ok, perché loro mi taglieranno la testa e io ho la mia dignità. Meglio che vivere nell’umiliazione con l’Isis”.
Non voleva che quel suo sorriso svanisse come tanti tanti altri sorrisi: doveva restare. Ed oggi che il mondo lo conosce è una pietra scagliata contro i volti demoniaci degli aguzzini del suo popolo. Le rivolte si fanno anche così perché nessun delitto potrà mai cancellare il sorriso della libertà.
Il quotidiano britannico “Independent” ha pubblicato l’ultimo post sul profilo Facebook di Raqia, scritto nel luglio scorso, per ironizzare sulla guerra dichiarata al Web dai jihadisti di Raqqa. “Avanti – scriveva la giovane donna – tagliateci internet, i nostri piccioni viaggiatori non se ne lamenteranno”.
Dopo averla assassinata, i miliziani dell’Isis si sono appropriati del profilo Facebook di Raqia per tendere una trappola a coloro i quali cercavano di comunicare con la ragazza. Il tragico gioco è durato fino ad una settimana fa. Non sappiamo quanti sono caduti nella tagliola.
Il conto dei giornalisti e dei blogger assassinati nello Stato islamico va quotidianamente aggiornato, per quanto non sia facile tenerlo. Dei sorrisi delle tante Raqia non c’è modo di saperne molto. Quasi niente si sa infatti di Iman al Alabi, attivista per i diritti umani,uccisa nell’agosto 2013 con un colpo di pistola, e meno ancora di Maria Shamas, insegnante i 44 aanni, freddata per strada, due settimane fa. E quante altre hanno avuto il loro stesso destino a Raqqa o altrove? Ci basta sapere che anche a mani nude, si può sfidare un regime criminale al quale fanno paura più le parole che le bombe.