Io sono europeo, i tedeschi forse no

di Francesco Montorsi
Pubblicato il 23 Febbraio 2012 - 11:53 OLTRE 6 MESI FA

PARIGI – Una buna parte della mia generazione, nata negli anni ottanta, è cresciuta europeista e forse non poteva essere altrimenti. La nostra è la generazione dello spazio Schengen (1985), del programma Erasmus (1987), dei viaggi Interrail, dei voli low cost, la prima generazione per cui viaggiare in Europa non è una questione di frontiere e visti, ma solo di orari, di biglietti da prendere in tempo, di amici da avvertire.

Il risultato di questa politica è che ormai l’Europa fa parte della nostra identità. Ci sentiamo italiani ma anche poi, indiscutibilmente, europei. Per mio conto, sono nato e cresciuto a Roma, da lungo tempo vivo a Parigi, con una pausa di un anno in Germania, e un giorno forse, non lo escludo, potrei anche vivere altrove, che so in Spagna o in Inghilterra. Se l’Europa finisse, sarebbe, senz’altro, la fine di una patria, di una delle mie patrie.

Questa eventualità – la fine dell’Europa – solo pochi mesi fa non esisteva. Oggi però l’Europa, travolta da una crisi che ne scuote le fondamenta, si interroga sulle condizioni della sua esistenza. E sono diversi i paesi, specie i più fortunati, che si arroccano in egoismi nazionali che credevamo estinti. La politica di Angela Merkel e del suo governo nei confronti della crisi greca e della politica economica comune (gli eurobond) suscita non poche perplessità tanto per i contenuti quanto per i toni. E’ evidente, mi sembra, che il veleno dell’egoismo nazionale si è ormai diffuso nelle membra, una volta sane, del continente, e della Germania in particolare.

Le opinioni e le prese di posizione di Angela Merkel sono solo la punta politica di un iceberg, un blocco ancora più duro e ruvido, quello dell’opinione pubblica tedesca. Trovare i sentimenti peggiori della Germania è fin troppo facile, basta andare in edicola o su Internet e leggere il Bild-Zeitung, il quotidiano più venduto del paese, ma anche dell’Europa, il sesto nel mondo, due milioni e settecentomila copie vendute ogni giorno.

Sfogliando le pagine di questo tabloid che ama i toni populisti e le donne nude sulla prima pagina, si scopre che nessun freno, nessuna misura, è adoperata nei confronti della Grecia. Uno dei titoli più recenti del giornale, riferendosi a violente e volgari critiche antitedesche ad Atene, diceva: «Noi paghiamo, loro ci insultano. Buttiamo la Grecia fuori dall’Europa».

Poco tempo prima, l’editoriale del giorno spiegava «Perché la Grecia deve uscire dall’Europa», con ironico titolo di accompagnamento «Per Zeus! Chi ci salva dal paese-bancarotta?». Ma sono innumerevoli gli articoli che esprimono un unico concetto, incessante e ripetitivo, un leit-motiv che rimbalza da una pagina all’altra e che è stato esemplificato da un efficace slogan : «Nessun centesimo di più per Atene».

I commenti, decine e decine, lasciati dai lettori utilizzano, con poche eccezioni, gli stessi toni. Un certo Edwin Burdak scrive che «in queste circostanze, dopo la Grecia, verrà il turno degli altri paesi. L’Italia sbraita già perché il contributo economico della Germania sia aumentato. Questi paesi in bancarotta faranno sempre in modo che a pagare sia l’Unione Europea, o Michel il tedesco (personificazione della nazione come Marianne per la Francia o John Bull per il Regno Unito. NdR)» Altri lettori se la prendono con la mancanza di carattere dei greci, come Eckart Langer: «Per la Grecia la cosa migliore è tornare alla dracma, e mostrare così di essere abbastanza orgogliosi da non voler nuocere agli altri» o come Sebastian-Maria Seefeld : «I greci non vogliono un aiuto, vogliono solo soldi. Non vogliono cambiare nulla, vogliono solo scroccare. Se avessero solo un po’ d’orgoglio… Che se ne vadano dall’Euro, e anche subito!».

Il più potente «opinion maker» del paese e dell’Europa rivela quello che sapevamo da mesi: una parte importante del popolo tedesco non si sente legata in nessun modo al destino di Atene. Chiaramente, il sentimento europeista che una parte della mia generazione credeva radicato nelle coscienze non esiste ancora, specie nel paese più importante, per dimensioni ed economia, del continente. Certe espressioni di un nazionalismo ruvido e meschino, degne delle birrerie più che di giornali e discussioni pubbliche, ci dicono che la strada per una vera integrazione, malgrado il sentimento europeista di alcuni, è ancora lunga, e in salita.