Brexit, un labirinto spiegato in 4 punti, con l’incubo del terrorismo irlandese

di Giampiero Martinotti
Pubblicato il 26 Gennaio 2019 - 09:31| Aggiornato il 11 Settembre 2020 OLTRE 6 MESI FA

Il Paese che ci ha insegnato cos’è la democrazia è oggi il Paese che illustra la crisi della democrazia rappresentativa in tutto l’Occidente.

Brexit è quasi un caso da manuale per gli storici del futuro: la più antica istituzione parlamentare, Westminster, non è in grado di dar forma a quel che ha deciso il popolo sovrano, cioè l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. E la sua paralisi rischia di provocare paurosi contraccolpi economici in tutto il continente.

  Crisi della democrazia rappresentativa, dunque. Fin dal principio. Chi ha chiesto un referendum sulla Brexit? Non certo il popolo. A deciderlo sono stati un governo e una maggioranza parlamentare conservatori. Incapaci di mettere un termine alla sempre più rissosa contrapposizione interna tra europeisti ed euroscettici.

La Brexit nasce insomma dall’impotenza politica: pur di farsi rieleggere, David Cameron promette ai suoi elettori un referendum sull’Europa.

Vince le elezioni nel maggio 2015, convoca un referendum e lo perde, complice anche l’opposizione laburista, a sua volta divisa e comunque molto tiepida nel difendere l’Ue.

Dopo il voto del 24 giugno 2016, l’arrivo di Theresa May alla guida del governo e le elezioni anticipate, governo e parlamento continuano a non avere una maggioranza in grado di decidere la linea da seguire. L’accordo tra governo e Ue è stato bocciato da 432 deputati contro appena 202 favorevoli.

A pochi giorni da un nuovo voto, la democrazia rappresentativa sembra paralizzata. Tre anni fa ha chiesto al paese di scegliere ponendo un quesito falsamente semplice (volete uscire o restare nell’Ue?) e oggi non sa come dare uno sbocco concreto a quel voto.

  Il Daily Mail ha individuato almeno dieci tendenze all’interno della Camera dei Comuni. Lasciando da parte le sfumature, vediamo le quattro principali, che si paralizzano a vicenda.

1) I favorevoli all’accordo con l’Ue sottoscritto il 25 novembre 2018 – Pensano che non ci siano alternative possibili dopo due anni e mezzo di trattative. L’Ue si è dimostrata compatta per imporre le sue condizioni. Lo scoglio più preoccupante è stata la questione irlandese.

Dopo una guerra civile costata 3 mila 500 morti, gli accordi di pace del 1998 fra Regno Unito e Irlanda hanno previsto, tra l’altro, la soppressione di tutti i controlli alla frontiera tra Eire e Ulster.

Ma se la Gran Bretagna esce dall’Ue, dove si situa il confine con i Ventisette? Il backstop o rete di sicurezza trovato con l’accordo è un compromesso zoppicante: il Regno Unito resta nell’Unione doganale europea fino a quando non verrà trovata una soluzione diversa, da discutere durante il periodo di transizione che durerà fino al 31 dicembre 2020, prolungabile ancora per due anni.

E magari ancora di più senza una nuova intesa. In questo modo, le merci e le persone continueranno a circolare come adesso, non sarà ricreata una frontiera fisica tra le due Irlande. Battuta in parlamento, la premier spera di introdurre una fine temporale alla situazione per avere un voto favorevole a Westminster, per ora la Ue risponde picche. May ha scartato l’idea di una frontiera marittima tra l’Ulster e il Regno Unito.

2) I favorevoli a un’uscita senza accordo – Sono gli storici avversari dell’Europa, quelli che hanno convinto i britannici a votare per l’uscita, guidati dal conservatore ed ex ministro degli Esteri Boris Johnson e dal leader dell’Ukip, Nigel Farage (alleato dei grillini nell’europarlamento).

Dicono no all’accordo in nome della loro ideologia neo-liberista: uscire senza vincoli dall’Ue significa, secondo le loro tesi, restituire al Regno Unito una sovranità totale.

Un hard Brexit, vuol dire la possibilità di sottoscrivere accordi commerciali bilaterali con tutti i paesi del pianeta e, eventualmente, praticare un dumping fiscale e sociale nei confronti degli europei. Per loro, il backstop accettato dalla May è una trappola che tradisce il voto popolare e che, a termine, potrebbe minacciare l’integrità del Regno Unito.

3) I favorevoli a integrare per sempre l’Unione doganale europea – E’ l’ipotesi prediletta dall’ambiguo Jeremy Corbyn, capo dei laburisti tentato da un vago vetero-marxismo e da sempre diffidente verso un’Europa considerata troppo liberale.

Sa che il 37 per cento dei suoi elettori (le classi popolari colpite dalla disoccupazione) ha votato per la Brexit, mentre i suoi deputati e i suoi militanti sono maggioritariamente europeisti. Corbyn teme però i riflessi sull’economia di un hard Brexit. Per questo motivo, è disposto a votare l’accordo con l’Ue solo se May garantisce il mantenimento della Gran Bretagna nell’Unione doganale.

4) I favorevoli a un nuovo referendum – Sono nettamente in minoranza: laburisti fedeli agli ideali europei, scozzesi, la pattuglia liberal-democratica. Sperano che la paralisi parlamentari crei le condizioni per una nuova consultazione popolare.

Ma sottovalutano due rischi. Il primo è legato ai sondaggi: in questo momento, i favorevoli a restare nell’Ue sono maggioritari (56%), è tuttavia assodato che gli umori popolari mutano notevolmente e gli unici sondaggi affidabili sono quelli a ridosso del voto. Secondo rischio: che domanda sottoporre agli elettori ? Le possibilità, infatti, sono molte: uscire senza accordo, rimanere, uscire restando nell’Unione doganale, uscire con l’accordo trovato dalla May, prolungare i negoziati con l’Ue.

  Il primo ministro spera nella stanchezza dei deputati per espugnare Westminster e trovare una maggioranza per il suo accordo. Ha ribadito di essere contraria a spostare la data del 29 marzo, a un ingresso permanente nell’Unione doganale, a un nuovo referendum, alle elezioni anticipate, a un hard Brexit. O me o il caos, insomma. Una scommessa pericolosa anche per una donna ostinata come Theresa May.