ROMA – Da sempre i turni elettorali amministrativi hanno una valenza e un significato nazionali. Sono inevitabilmente considerati elezioni di mezzo termine buone per valutare lo stato di salute del Governo e delle forze politiche. Cosi è stato per le elezioni di domenica che hanno interessato 7 regioni e un certo numero di comuni. Ne sono usciti tutti ufficialmente soddisfatti, ma tutti con l’amaro in bocca. Berlusconi con la sua Forza Italia può vantarsi di aver strappato alla sinistra la Liguria e di aver cancellato l’incubo dell’annullamento totale. Soddisfazione e amarezza.
La Lega di Salvini ha riconfermato il suo primato in Veneto, dove temeva l’effetto di trascinamento della scissione del Sindaco di Verona Tosi. Ma soprattutto ha conquistato il primato nel centro-destra, ponendo la sua candidatura alla leadership dell’eventuale schieramento antirenziano. Tuttavia, ancorché sia stata accantonata la demenziale illusione della secessione padana, la Lega di Salvini continua a trovare difficoltà nel suo tentativo di ramificarsi in tutta Italia. Soddisfazione e amarezza. Lo stesso Nuovo Centro Destra di Alfano può tirare un sospiro di sollievo e scaramanticamente sostenere di non essere stato rottamato. Resta, comunque, la sua incapacità a porsi come aggregatore di un’area politica, continuando a pesare la condanna all’irrilevanza. Soddisfazione e amarezza.
Indubitabile anche il successo elettorale di 5 Stelle, il cui consenso non tende a scemare, ma anzi si rafforza contestualmente alla crescita politica dei suoi quadri. Deve, tuttavia, registrare una modesta capacità di radicamento sul territorio. Soddisfazione e amarezza Identico, anche se più complesso, il risultato del Partito Democratico di Renzi. E’ indubitabile che avendo vinto in 5 regioni su 7 possa ufficialmente dichiararsi soddisfatto. Ma le spine di questa vittoria sono tante. Intanto, la Liguria, dove il PD ha perso, non certo per la capacità attrattiva di Forza Italia o il trascinante carisma di Giovanni Toti, bensì per la fronda interna della sua ala sinistra, che a sua volta può ritenersi soddisfatta, avendo dimostrato a Renzi che non può continuare ad andare avanti senza tenere debito conto delle istanze e della presenza di una fronda interna che potrebbe pericolosamente intralciare il suo cammino.
In secondo luogo i risultati elettorali in Campania e in Puglia, che hanno registrato la vittoria di personaggi fortemente radicati sul territorio con un carisma personale capace di travalicare gli angusti confini di partito e raccogliere ampi consensi trasversali. Due personaggi, De Luca e Emiliano, che difficilmente potranno adeguarsi alle indicazioni renziane quando queste non dovessero coincidere con i loro personali interessi. Ma, la spina più dolorosa per Renzi viene proprio dalla disaffezione al voto. Quasi metà degli aventi diritto non si sono recati alle urne. Al di là del fisiologico astensionismo questo dato significa che buona parte dell’elettorato di sinistra, non condividendo la politica di Renzi e non sentendosela di votare per il centro-destra o per altri partiti, ha preferito non andare a votare. Parallela valutazione può essere fatta per quella parte di elettorato di centro-destra che a fronte della liquefazione del berlusconismo ha preferito, di fronte all’opzione leghista, starsene a casa. L’astensione al voto segnala, però, un altro elemento di grande rilevanza: il fallimento del tentativo renziano di sfondare nell’elettorato di centro-destra e di costruire il grande partito (di centro) della Nazione.
Questo è quello che ci dicono le elezioni di mezzo termine di domenica. Il Segretario del PD, che nell’attuale partita politica è quello che rischia più di tutti, dovrebbe valutare attentamente questi risultati. Il vestito su misura che si è costruito con la nuova legge elettorale potrebbe, infatti, alla fine rivelarsi un boomerang. L’elettorato ha respinto ogni prospettiva bipolare o bipartitica. Il premio di maggioranza garantito alla lista e non alla coalizione che raggiunga il 40% non è in grado oggi di assicurare a Renzi quel risultato cosi scontato che con l’italicum voleva raggiungere. Se nel 2018, presumibile scadenza elettorale, si dovesse andare al voto con questa situazione e questa legge elettorale, Renzi rischierebbe di andare al ballottaggio con il leader di 5 Stelle, che, probabilmente, potrebbe essere il giovane Di Maio. Il confronto tra i due sarebbe a quel punto ad armi pari? Forse, lo vedremo, ma non c’è dubbio che, a quella scadenza, a favore dell’ormai leader naturale del Movimento 5 Stelle giocherà il vantaggio dell’età e dell’assenza di responsabilità nella gestione del potere. Renzi ci pensi.