È morto l’ultimo Valobra genovese, Guglielmo per l’anagrafe, Gughi per la famiglia e gli amici. Ne hanno dato notizia due necrologi sul Secolo XIX di Genova, uno del Rotary è uno della sezione ligure della Accademia della cucina, di cui era stato presidente.
Gughi era la terza generazione di una importante famiglia genovese che aveva graziato gli italiani di un sapone eccezionale. Il sapone Valobra aveva una diffusione limitata, era, si direbbe oggi, un prodotto di nicchia. Ma che nicchia, ma che sapone, ma che qualità. Il prezzo era la metà di altri stranieri di alta gamma, la durata doppia.
La famiglia Valobra si era rifugiata a Genova dalla Spagna ai tempi della Inquisizione. Il nonno di Gughi, Virgilio, a cavallo del ventesimo secolo lasciò un affidabile lavoro in banca per investire i suoi risparmi in quella fabbrica di sapone a Bolzaneto, poco lontano da dove avrebbero costruito il ponte Morandi.
Il risultato fu di solido successo, durato più di un secolo, pur con i limiti di un marketing limitato. I prodotti si trovavano nelle farmacie e in negozi selezionati. Così è stato fino alla fine, alla cessione, qualche anno fa, a un grosso gruppo italiano del settore, Proraso.
Proprio di recente, dopo un periodo di assenza, i saponi Valobra sono tornati sul mercato, con grande gioia dei fan come chi scrive. Non mi pare sia incluso l’eccellente sapone per barba.
Conoscevo Gughi da 72 anni. Lui era del 1946, aveva un anno meno di me ma aveva anticipato, io, di gennaio, ero in ritardo.
Ricordo quella aula cupa e sovraffollata nella scuola di corso Firenze a Genova. Mezza città o quasi era distrutta o inagibile per bombe e sfollati. Si facevano i doppi turni, la nostra prima andava al pomeriggio.
Non ci sono memorie significative per me di quel 1951 di gigantesche latte gialle con enormi dosi di formaggio Cheddar, oggi preziosa prelibatezza, allora disgustosa elargizione americana targata Erp (european recovery program, nome ufficiale del piano Marshall).
I Valobra per quei tempi e per noi poveri erano ricchi. La classe non è acqua e il livello di educazione e formazione di Gughi era trasparente per tutti noi ragazzi del rione, tutti bravi ragazzi ma nessuno del suo rango.
Una foto del Centro di documentazione ebraica mostra uno zio di Gughi (antifascista e morto a Auschwitz) con moglie, due figli e bambinaia (oggi si dice baby sitter).
La vecchia nonna di Gughi viveva in un grande appartamento in un bel palazzo di Castelletto con vista verso il monte Fasce e Portofino. Possedeva una villa a Bargagli, nell’immediato entroterra, di cui ricordo un grande albero carico di ciliegie. E una 1100 nera, lussuosa macchina all’epoca, guidata da un autista.
Castelletto è un rione di Genova dove siamo cresciuti Gughi e io. Si tratta di una spianata sovrastante la città vecchia, di cui si trova pari a Napoli e Hong Kong. Ma la spianata di Castelletto ha una peculiarità: le case vi furono costruite, dalla metà dell’800, dopo che i genovesi ebbero letteralmente spianato due volte la sovrastruttura del castello che dominava la città.
La prima volta fu nel ‘500 dopo una occupazione francese, la seconda poco prima della Unità d’Italia: i piemontesi avevano usato l’altra per i loro cannoni impegnati nella repressione di una rivolta anti sabauda.
Castelletto ha un che di magico, con la vista mozzafiato che offre e quella fila di pini marittimi che sembrno offrirti protezione dalla vita. Purtroppo il Comune, popolato da gente priva di nozione e ostile a Castelletto, ha sovrimposto a quei pini meravigliosi alcune palme assurde.
Un poeta, Giorgio Caproni (in paradiso ci andrò con l’ascensore di Castelletto), e un artista, Emanuele Luzzati, hanno fatto di Castelletto e del suo ascensore di levante un luogo di mito. (Quello di ponente, che prendevo per andare a scuola, è sempre stato di minore importanza). Ti porta, con un dislivello di 57 metri, dalla calura e dal fetore dei vicoli della città vecchia (una volta off limits per le truppe americane) all’aria fresca della collina.
L’ascensore era lì negli anni 50, quando la nonna di Gughi sedeva ore su una delle panchine di ferro proprio davantalla uscita dell’ascensore. Aspettava l’arrivo di uno dei tre figli che abitava con lei. Doveva tornare a casa, come aveva fatto per anni prima della guerra, dall’ufficio della azienda intitolata al padre, Virgilio, situato un uno degli edifici simbolo della nuova Genova, il cosiddetto Grattacielo: 32 piani, uno scherzo per i parametri newyorkesi ma da cui domini i resti della casa di Colombo, una antica porta della città, una porzione della Genova millenaria.
Ma il figlio della nonna di Gughi non è mai più uscito dall’ascensore.
Un’ombra tragica incombeva sui Valobra. Uno dei tre fratelli della seconda generazione era stato ingoiato in un forno a Buchenwald, con la moglie e tre figli. Uno si chiamava Guglielmo, come il nonno. Sul muro dell’ingresso del campo degli Ebrei nel cimitero di Staglieno a Genova sono incisi i nomi di ebrei genovesi deportati in Germania e mai più tornati.
Ricordo il brivido quando ho letto quel nome, qualche anno fa. Ero andato a visitare il camposanto dove la lungimiranza di nonna Giuseppina ha garantito sepoltura perpetua a se, al marito, ai miei genitori e spero anche a me quando sarà il momento.
Vicino vedo il campo degli ebrei e quei nomi scolpiti a memoria della follia umana e anche della pericolosità dei tedeschi. A una certa età sono cose che colpiscono.
Con Gughi non ne ho mai parlato. Non ne parlava suo padre, gran bell’uomo e gran signore. Erano gente riservata, modesta, semplice, alla mano. Il padre parlava con noi sedicenni come fossimo adulti. Ci spiegava la diversa altezza del bottone nella giacca a due bottoni americana rispetto a quella italiana a due e a tre bottoni.
Ci raccontava divertito della abbondanza di beni in Italia durante le sanzioni.
Portava sempre il cappello, estate e inverno, come la maggior parte degli uomini a quei tempi. Quando incontrava mio padre, umile barbiere, era tutto uno scappellarsi e uno scambio di “scignuria” (a dire il vero anche un altro grande della città, l’armatore Ravano, presidente e proprietario della Sampdoria, nostro padrone di casa, era di una cortesia squisita, mai più riscontrata).
Gughi si era affezionato a me in quell’anno scolastico e poi siamo rimasti affettuosamente amici tutta la vita.
Verso i 16 anni mi regalò un disco 33 giri di Sidney Bechet, con Petite Fleur. Lo conservo ancora con commozione. Come conservo le belle scatole di latta delle sue saponette che mi ha mandato in questi anni.
In quel periodo ci vedevamo ogni giorno o quasi, estate e inverno. Nel pomeriggio studiavo a casa mia con Mauro Coppini. Dovevamo fare presto con i pochi compiti che si assegnavano al ginnasio perché lui, puntualissimo, alle 5 arrivava. Seguivano lunghe passeggiate in Castelletto o tante parole seduti sulle panchine.
Ricordo quando ci annunciò la scoperta dell’aria condizionata al cinema, innovazione degli anni ‘60: “Sono 20 gradi”. Mi ritorna in mente ogni volta che in estate controllo la temperatura in camera da letto. Penso al cinema di Gughi.
Non ci fu intensa frequentazione, dopo le superiori, le nostre vite avevano preso strade diverse. Io emigrato in cerca di fortuna, lui legato dal suo destino alla fabbrica del nonno. Essendo persona concreta, studio da perito chimico. Poi si immerse nella vita di fabbrica.
Ci siamo ritrovati 40 anni dopo grazie a un comune amico, Giorgio Alfieri, mio compagno di classe dalla seconda elementare alla terza media.
Come mi accade con gli amici della infanzia e della adolescenza, mezzo secolo è evaporato, come se ci fossimo visti il giorno prima.
Siamo molto diversi per idee e percorsi di vita. Eppure c’è qualcosa di speciale, tutto è così semplice, naturale.
Una nota di rammarico. Vivendo nel mondo dei giornali, avrei potuto facilmente indurre qualche articoletto promozionale per i suoi prodotti, sapone da barba incluso, essendone io peraltro fedele consumatore.
Non mi è mai venuto in mente, prova di uno dei miei tanti difetti e limiti.
Lui non me lo ha mai chiesto, prova di che tipo di signore che era.
Ai tempi del covid Blitz lo intervistò. Questo l’articolo di Caterina Galloni.
“Coronavirus, per prevenirlo, lavarsi le mani con il sapone è il mezzo più sicuro e efficace. Altro che candeggina. Lo conferma Guglielmo Valobra, per mezzo secolo a capo di uno dei migliori brand di sapone di alta gamma.
Nessuno dovrebbe usare la varechina per lavarsi: “Tuttavia bisogna ricordare che la prima vera igiene generale e dell’ambiente è stata ottenuta grazie alla sintesi del cloro dal sale marino e l’introduzione della “eau de javel” (candeggina) verso la fine del settecento”.“Valobra da sempre sostiene la superiorità del classico sapone di Marsiglia rispetto ai vari detersivi oggi in uso, a partire dai saponi liquidi. Il sapone di Marsiglia, precisa, in realtà nacque a Genova. Maestri saponificatori genovesi lo insegnarono ai francesi nel ‘600 quando Jean-Baptiste Colbert, padre dell’economia francese moderna, volle sviluppare a Marsiglia e dintorni un polo industriale del sapone.
Ci siamo incontrati l’ultima volta poco prima del covid. Lui aveva appena ceduto l’azienda e me ne spiegò le ragioni: sempre lucido, concreto, razionale, non potevi non concordare.
L’incontro avvenne nel ristorante Vittorio a Recco, uno dei miei preferiti al mondo. In quella occasione toccai con mano la sua popolarità fra i ristoratori.
Lo ho sentito al telefono l’ultima volta alcuni mesi fa. “Sono Gughi…Valobra, mi volevo complimentare per il tuo articolo”.
Non ricordo, è l’età, il tema ma ricordo che mi fece un immenso piacere.
Pensavo di rivedere Gughi quando andrò a Genova fra qualche settimana.
Non potrò più farlo. Ma fin che mi regge la memoria, sarà come se.
Sono stato un po’ prolisso e chiedo scusa. Ma questo almeno a Gughi lo dovevo.
E intanto sul mio giradischi suono Petite Fleur.