Immigrati, rifugiati, clandestini: perché distinguere è necessario

Immigrati, rifugiati, clandestini: perché distinguere è necessario
Foto Ansa

ROMA – Immigrati, rifugiati, clandestini: perché distinguere è necessario. Questo articolo di Giovanni Valentini è stato pubblicato il 14 febbraio 2018 sulla Gazzetta del Mezzogiorno e sulla Sicilia.

È chiaro ormai che, dopo i tragici fatti di Macerata, l’emergenza immigrazione sarà probabilmente l’ago della bilancia delle prossime elezioni politiche. Il “fattore I”, l’elemento determinante, che condizionerà il verdetto popolare, come il “fattore K” ai tempi della Prima Repubblica isolava ed escludeva il vecchio Partito comunista dall’area di governo. Prima il barbaro e feroce assassinio della povera Pamela Mastropietro, drogata, uccisa, squartata e occultata in due trolley; poi la folle sparatoria messa in scena nel centro della tranquilla cittadina marchigiana dal giovane estremista di destra Luca Traini: due eventi che peseranno verosimilmente sul responso elettorale più di qualsiasi altro argomento o motivo d’interesse.

Nell’immaginario collettivo, il “caso Macerata” è destinato a rappresentare il paradigma di una politica incapace di gestire in modo adeguato un fenomeno come l’immigrazione di massa che coinvolge più direttamente le nostre regioni meridionali, sottoposte al trauma pressoché quotidiano degli sbarchi più o meno clandestini. Un groviglio di sensazioni, pulsioni, reazioni, che mescola una legittima domanda di sicurezza, occupazione e benessere sociale. E anche una richiesta di parità di condizioni fra cittadini italiani e stranieri che riguarda la casa, il lavoro, l’assistenza sanitaria.

La narrazione corrente di questa emergenza epocale porta acqua purtroppo al mulino dell’intolleranza, della xenofobia o addirittura del razzismo. E in termini elettorali, si può prevedere che gioverà più alla destra che alla sinistra, l’una pronta a speculare sulle paure istintive della gente e l’altra incline a predicare una cultura dell’accoglienza che spesso scade nella retorica del buonismo e della solidarietà.

Noi dobbiamo distinguere, invece, fra immigrati, rifugiati e clandestini; cioè fra chi entra regolarmente nel territorio italiano e ha diritto quindi di restarvi, e chi arriva in modo irregolare nel nostro Paese, violando leggi e norme dello Stato. Rifugiati e immigrati regolari cercano lavoro, sopravvivenza, integrazione, perché fuggono dalla fame, dalla miseria, dalle guerre. Gli altri, proprio per effetto della loro condizione di clandestinità, vivono nel buio della criminalità più o meno organizzata, dello spaccio di droga o del traffico della prostituzione e vanno ricercati, arrestati e rimpatriati.

Si calcola che questo esercito clandestino arruoli fra 500mila e 600mila irregolari. Non tutti evidentemente vengono qui con l’intenzione di delinquere. Ma quando non sanno né dove dormire né dove mangiare sono portati fatalmente a cercarsi da vivere con ogni mezzo, anche illegale. Tant’è vero che la nostra popolazione carceraria è composta per oltre la metà da extra-comunitari, per lo più manovali del narcotraffico.

Non c’entra il colore della pelle. Né la razza, la religione o la provenienza. Prevale piuttosto il senso di emarginazione e disperazione. Di estraneità rispetto alla società in cui si vive clandestinamente e quindi di rabbia, di ostilità, di violenza: come conferma anche l’ultimo caso di Padova, dove un nordafricano con un permesso di soggiorno scaduto nel 2014 e senzatetto ha preso a calci e pugni due anziani che l’avevano rimproverato perché circolava in bicicletta sul marciapiedi ed è stato rimesso subito in libertà. Un istinto primordiale, predatorio e feroce, che alimenta reati d’ogni genere, furti, rapine, omicidi e femminicidi. C’è, insomma, una “immigrazione percepita” che – come la temperatura percepita – può risultare più calda o più fredda a seconda delle situazioni, dei frangenti, delle esperienze personali.

Per la sinistra di governo, è paradossale che tutto ciò esploda nel momento in cui un ministro dell’Interno come Marco Minniti cerca di contenere, arginare e regolare il fenomeno, più e meglio dei suoi predecessori. Tanto più che anche la destra ha le sue responsabilità e le sue colpe, avendo commesso in passato errori e omissioni. Ma, al di là delle capacità e dei meriti di Minniti, la sinistra sconta anche in questo caso un deficit culturale che l’ha portata a parlare finalmente di sicurezza sociale con grande ritardo, dopo aver coltivato a lungo un’ideologia alternativa, antagonista, anti-sistema. E perciò deve ancora recuperare credibilità e affidabilità su questo terreno minato.

Certo, oggi la sinistra riformista, quella di Renzi, Gentiloni e Minniti, è tutt’altra cosa. In tanti campi, s’è affrancata dalla matrice ex o post-comunista. E tuttavia, non si può dimenticare che oggi in questo centrosinistra militano personaggi che fino a qualche anno fa sostenevano la necessità di sparare ai barconi degli immigrati, senza troppi distinguo fra regolari e irregolari. O anche ex candidati di quella destra ex o post-fascista che partorì l’infausta legge Bossi-Fini, da cui non sono scaturirti certamente risultati apprezzabili. Quale credibilità e affidabilità merita, allora, una coalizione così eterogenea, allestita con la logica del cartello elettorale, pronta magari ad allearsi con i suoi vecchi avversari e a sacrificare la propria identità in nome della vagheggiata governabilità?

L’immigrazione come paradigma, dunque, come test o banco di prova di una politica incerta e smarrita, in un Paese insicuro, disorientato, privo di punti di riferimento. Un’emergenza epocale diventa così il pomo della discordia fra due cartelli elettorali e un terzo polo ondivago che un giorno parla come la destra e un altro giorno come la sinistra. Siamo riusciti a spiegare ai partners europei che si tratta di una questione internazionale, ma non siamo ancora riusciti a capirlo noi o forse non vogliamo capirlo.

 

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