Indipendenza della magistratura: bene di tutti e timore degli avvocati

Dopo tanto indignarsi , stracciarsi la toga, manifestare una malcelata soddisfazione per un ‘colpo di mano’ che ha saputo resuscitare un conflitto solo apparentemente dimenticato, è opportuno fare un po’ di chiarezza sullo spinosissimo tema della responsabilità civile dei magistrati, strettamente connesso a quello – non meno spinoso – della loro indipendenza.

L’indipendenza non è un bene della magistratura, ma è un bene della collettività , che se ne avvale ogni giorno – magari senza accorgersene – nelle aule di giustizia.

Che a difendere questo bene siano ( quasi soli ) i magistrati, non cambia la realtà. Lungi da essere un privilegio o un valore ‘astratto’, l’indipendenza fonda e rende possibile l’operare quotidiano della legge attraverso la sua interpretazione. La legge sarebbe muta, autentica ‘lettera morta’, se a darle voce non intervenisse ogni giorno , banalmente, l’interpretazione da parte dei giudici , e se tale attività non fosse assistita dall’indipendenza di chi istituzionalmente la esercita. Anche l’indipendenza è un valore ‘banale’ e quasi scontato, come tutto ciò che, per il suo essere indispensabile ( l’aria che respiriamo, la libertà in cui ci muoviamo , il pane che consumiamo) sfugge alla nostra percezione immediata, per ripresentarsi in tutta la sua urgenza quando ne siamo privati.

La generica formulazione inserita nella legge comunitaria 2011( per cui ‘chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento’ di un magistrato,’in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni o per diniego di giustizia ‘ potrà rivalersi facendo causa allo Stato o al magistrato per ottenere un risarcimento dei danni ) – compromette gravemente l’indipendenza dell’interpretazione e, di conseguenza, la possibilità per la legge di ‘parlare’ secondo giustizia. Esposto direttamente al rischio di una azione di risarcimento ( in una situazione – quella propria del decidere una lite – in cui c’è sempre almeno una parte che si è vista dar torto ), il magistrato sceglierà o di non agire, ovvero di farlo entro i limiti più angusti possibili, vale a dire attenendosi alle scelte interpretative meno rischiose e meno suscettibili di esporlo alla’rivalsa’ di chi non sia stato favorito dalla sua decisione.

E’ clamorosamente falso, poi, che questo improvvido allargamento sia imposto dall’Unione Europea e dalla sua Corte di Giustizia.

La stessa Corte di Giustizia delle Comunità Europee, in una sentenza del 2006, pronunziata su ricorso pregiudiziale promosso dal Tribunale di Genova, ha infatti precisato – e più di recente ribadito – che allo Stato nazionale è consentito limitare la responsabilità del magistrato ai soli casi di dolo o colpa grave con esclusione dell’attività di interpretazione della legge ( cosiddetta ‘garanzia interpretativa’), purchè questo non si traduca in una corrispondente esclusione dello Stato stesso dall’obbligo di risarcire il danno ingiusto derivato dal comportamento colposo del magistrato, anche nell’interpretazione di una norma di legge ( nel caso specifico la Cassazione era incorsa ‘colpevolmente’ in una erronea interpretazione del diritto comunitario). In sostanza: lo Stato resta libero di escludere la responsabilità ‘interpretativa’ dei propri giudici , ma deve poter essere sempre chiamato a rispondere nei confronti di chi si assuma ingiustamente danneggiato da un loro provvedimento o da una loro inerzia, ferma restando la possibilità di rivalersi ‘ in seconda battuta’ sul magistrato colpevole.

Nessun obbligo, dunque, derivante da una pretesa ‘pressione’ comunitaria. La scelta del legislatore italiano di proteggere l’attività interpretativa dei suoi magistrati è simile a quella di tutti gli altri Stati della Comunità: sarebbe piuttosto la norma che si vuole introdurre a porsi come un’anomalia nel quadro europeo.

E’ vero che la legge sulla responsabilità civile dei magistrati, risalente al 1988, non è stata molto utilizzata e che occorrerebbe riflettere sulle cause del suo relativo insuccesso: non ultima, tuttavia, quella derivante dal timore reverenziale degli avvocati verso i loro giudici. Spesso i primi hanno preferito perdere un cliente scontento piuttosto che incorrere nel paventato risentimento dei secondi. E’ sulle ragioni e sulla realtà di quel ‘timore reverenziale’ che occorrerebbe riflettere, quando si tratta di discutere della responsabilità dei magistrati.

 

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