X

Inerzia capitale

di Alberto Francavilla |26 Febbraio 2020 10:09

L’art. 114, terzo comma della Costituzione stabilisce che Roma è la capitale della Repubblica e che la legge dello Stato disciplina il suo ordinamento. La norma risale al 2001, ma nessuna legge è stata approvata. Un decennio sprecato. Due legislature. L’inerzia si conferma come uno degli elementi costanti della politica italiana. Per le città metropolitane, il letargo è addirittura ventennale, dalla approvazione della legge 142 del 1990.

La riforma costituzionale del titolo V ha complicato il quadro istituzionale delle autonomie. Ha eliminato i circondari (vecchio art. 129), previsti  esclusivamente per un ulteriore decentramento amministrativo e mai attuati. Ma ha aggiunto le Città metropolitane, elevando al rango costituzionale il nuovo ente territoriale, senza alcuna sperimentazione preliminare. E alla Capitale (una), si aggiungono le aree metropolitane (nove), i comuni (8.094), le provincie (110, in costante aumento tra il 1992 e il 2004), e le regioni (21, se si contano separatamente Trento e Bolzano, che sono provincie-regioni a tutti gli effetti). Tutti uguali, posti sullo stesso piano insieme allo Stato (ancora uno, per fortuna, con i suoi centocinquanta anni appena compiuti). Un affollamento eccessivo. E ogni ente, come è ovvio, difende le proprie prerogative e combatte, in questa fase fluida, per acquisirne di nuove. In base agli ultimi dati ISTAT, circa centocinquanta comuni superano i 50.000 abitanti, tra cui 80 capoluoghi di provincia (e ben 37 capoluoghi hanno invece popolazione inferiore ai 50 mila abitanti).

Una semplificazione sarebbe stata molto utile, e la riforma costituzionale avrebbe rappresentato la sede migliore, se non altro perché le riforme in cantiere, a cominciare dal federalismo fiscale, si propongono esplicitamente l’obiettivo di ridurre la spesa pubblica. Locuzioni del tipo “senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato” si ritrovano spesso nei decreti legislativi di attuazione e nella stessa legge 42 del 2009, con cui si sta dando attuazione all’articolo 119 della Carta riformata. Le funzioni devolute dallo stato agli altri enti territoriali dovranno essere svolte con lo stesso ammontare di risorse, che non saranno più trasferite, ma reperite dalla fiscalità, sotto il controllo diretto dei cittadini (e con sanzioni per gli amministratori spendaccioni). La responsabilizzazione non viene in realtà granché favorita dalle scelte effettuate e la compensazione avverrà, se avverrà, solo a livello aggregato, ma questo è un altro discorso.

La principale semplificazione sarebbe stata la abolizione delle provincie, auspicata da molti e timidamente tentata nel testo originario del decreto finanziario della scorsa primavera (decreto-legge 78 del 2010). “Le Province con un numero di abitanti inferiori a 220.000, che non confinano con Stati esteri e che non sono nelle regioni a Statuto speciale, saranno soppresse. Il tutto a partire dalla prossima legislatura provinciale”, recitava l’articolo 5 del testo originario. Sarebbero cadute sotto la mannaia, non molto arrotata in verità, Ascoli Piceno (212.846), Biella (187.314), Crotone (173.370), Fermo (176.488), Isernia (88.895), Massa-Carrara (203.698), Matera (203.770), Rieti (159.018), Vercelli (180.111) e Vibo Valentia (167.334). La proposta è rapidamente sfumata, per l’irresistibile movimento di pressione sorto a difesa dei sacri valori delle zone colpite, dal reatino all’iserniese.

La abolizione delle province fornirebbe una discreta dote al federalismo. Si potrebbero risparmiare circa 5 miliardi (i costi intermedi), dei 14 che rappresentano il costo totale di questo apparato. L’ostacolo rappresentato dalle migliaia di consiglieri, assessori, consulenti e connessi, che formano gli apparati provinciali, non sarebbe di per se insormontabile. Ma la politica, di questi tempi, è incapace di effettuare scelte così invise al proprio ceto. Al massimo si possono declamare nella campagna elettorale, per poi lasciarle cadere subito dopo. Un modello a due punte, con i comuni titolari, in prima battuta, di tutte le funzioni amministrative (art. 118, primo comma) e le regioni sedi della programmazione, sarebbe auspicabile. E stimolerebbe l’aggregazione per la gestione unificata di servizi, lasciando spazio al principio di sussidiarietà previsto dalla Costituzione (art. 118, terzo comma), che è finalizzato a favorire “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”.

L’affastellamento normativo è particolarmente evidente nel caso di Roma. Per rispondere alle esigenze derivanti dal suo status di capitale è stata approvata diversi anni fa una legge ad hoc, la 396 del 1990, rifinanziabile attraverso la finanziaria, come è stato per diversi anni fino al 2007, in cui sono stati stanziati circa 600 milioni di euro (212 per ciascun anno  nel 2007 e nel 2008 e 170 per il 2009). Nello stesso anno, con la legge 142, Roma è stata anche individuata come area metropolitana. Poi nel 2001 è stato costituzionalizzato il suo status di capitale e prevista una specifica riserva di legge per attuarne l’ordinamento.

Anche la legge delega sul federalismo fiscale, la n. 42 del 2009, dedica a Roma capitale, inserita in zona Cesarini nel provvedimento, un intero articolo (art.24) dove definisce “un (nuovo) ente territoriale, i cui attuali confini sono quelli   del  comune  di  Roma, (che)  dispone  di  speciale  autonomia, statutaria,  amministrativa e finanziaria, nei limiti stabiliti dalla Costituzione”. La norma detta un ordinamento transitorio, che diventerà definitivo con l’entrata in vigore delle città metropolitane (art.23) e che, a sua volta, si stabilizzerà con la definizione delle funzioni fondamentali dei comuni (la lettera p dell’art.117), contenuta nel disegno di legge sulle autonomie, all’esame del parlamento (il provvedimento, approvato dalla Camera il 30 giugno 2010 è attualmente in discussione al senato – AC3118, AS2559).

Un percorso complesso. Nell’art. 24 si individuano competenze ulteriori, rispetto a quelle comunali, per il nuovo ente: concorso  alla  valorizzazione  dei  beni  storici,  artistici, ambientali  e  fluviali; sviluppo economico  e  sociale di Roma capitale con particolare riferimento al settore produttivo e turistico; sviluppo urbano e pianificazione territoriale; edilizia pubblica e privata; organizzazione   e   funzionamento   dei  servizi  urbani,  con particolare riferimento al trasporto pubblico ed alla mobilità; protezione  civile. Sono funzioni rilevanti, da disciplinare con regolamenti   adottati   dal   consiglio   comunale,  che  assume  la denominazione   di   Assemblea   capitolina, “in  conformità al principio  di  funzionalità  rispetto  alle speciali attribuzioni di Roma  capitale”.  La stessa Assemblea è chiamata ad approvare lo statuto di Roma capitale, “con  particolare  riguardo  al decentramento municipale”.

Il decreto legislativo n. 156 aggiunge poco e confonde molto. Attua la delega limitatamente alla disciplina degli organi di governo di Roma capitale, individuati nell’Assemblea capitolina, nella Giunta capitolina e nel Sindaco. L’Assemblea capitolina, organo di indirizzo e di controllo politico amministrativo, è composta dal Sindaco e da 48 consiglieri e presieduta da un Presidente eletto tra i consiglieri nella prima seduta.  Tra le sue competenze vi è la deliberazione dello statuto di Roma capitale, nonché l’adozione di regolamenti per la disciplina delle funzioni amministrative assegnate dalla legge sul federalismo fiscale a Roma capitale, che dovranno essere specificate in un successivo decreto legislativo.

Si prefigura in altre parole un nuovo organismo, che governerà la futura area metropolitana capitale, raccogliendo i comuni della provincia di Roma (o una parte di questi) e decentrando quello romano, per evitare una concentrazione che penalizzerebbe gli altri. Ma la distorsione si determina proprio con la decisione di fare partire il processo, provvisoriamente, con il solo comune di Roma. E’ evidente che l’assegnazione di funzioni molto rilevanti, di rango regionale, come quelle elencate, rischia di pregiudicare la formazione dell’aggregato più vasto (che prevede, al termine del processo, la soppressione della provincia).

La specificità di Roma è stata individuata anche per il patto di stabilità interno. La legge di stabilità per il 2011 definisce infatti delle regole specifiche, disponendo che “entro il 31 ottobre di  ciascun  anno,  il  sindaco  trasmette  la proposta di accordo al Ministro  dell’economia  e  delle finanze, evidenziando, tra l’altro, l’equilibrio  della  gestione  ordinaria” e concorda, entro il 31 dicembre,  “modalità” ed “entità”, “del  proprio concorso alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica”.  Se si aggiungono la gestione straordinaria del comune avviata nel 2008 e il piano di rientro sanitario del Lazio, che ha messo sotto tutela la gestione della principale competenza regionale, il quadro dell’intreccio normativo appare in tutta la sua complessità.

L’attuazione di Roma capitale richiederebbe scelte incisive. Un recente documento del PD romano sul tema (“La Capitale Metropolitana: uno strumento istituzionale per governare bene”) affronta la questione incrementando le funzioni di ogni tassello istituzionale . Per i municipi (“maggiore livello di decentramento delle funzioni dal Comune ai Municipi”). Per le province diverse da Roma (“accrescere le competenze amministrative delle altre Province del Lazio”, con un nuovo conferimento, statale e regionale, di funzioni). Per la nuova area metropolitana (“I Comuni metropolitani formati dai Municipi di Roma  e dai Comuni dell’Interland romano che sono parte dell’area metropolitana  dotati finalmente di autonomia di budget  saranno in grado di poter programmare e realizzare politiche nuove e articolate per le proprie comunità”). Per la stessa provincia di Roma soppressa (“Accanto all’assemblea dei consiglieri della Città metropolitana, ben potrà essere costituito un organo di raccordo dei sindaci dei comuni – inclusi gli ex municipi -, per avere una sede di concertazione interistituzionale che si esprima su i più importanti atti di programmazione”). Per la regione “con la previsione di un nuovo regime speciale (quindi con maggiori competenze legislative e un nuovo Statuto di rango costituzionale come per Sardegna, Sicilia, Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia) ovvero con l’ampliamento delle forme di autonomia in alcune materie come prevedono le norme costituzionali sul federalismo differenziato (art. 116 Cost.)”.

Dare un colpo al cerchio ed uno alla botte non risolve i problemi. Il rischio è quello della paralisi istituzionale in un coacervo di enti in conflitto permanente per affermare (o negare) la rispettiva competenza. Chiedere maggiori poteri per la regione Lazio si scontra con la realtà effettiva di un ente che non riesce a gestire le competenze normali, espropriate dall’inerzia e dal commissariamento. Non si tratta di difficoltà congiunturali, ma di profondi squilibri, causati da una classe dirigente, politica e amministrativa, particolarmente scadente. E la ragione principale di questo scadimento sta proprio nella attrazione fortissima esercitata dall’area romana (e dal livello nazionale, che a Roma si esprime).

Una scelta di riforma istituzionale forte dovrebbe prendere atto di questo dato strutturale e dare poteri regionali alla Capitale, inclusa la funzione legislativa (in analogia con le provincie autonome di Trento e Bolzano). I territori delle altre provincie, abolite come enti analogamente alle altre, potrebbero essere aggregati alle regioni limitrofe  (Viterbo alla Toscana, Rieti all’Umbria, Frosinone e Latina alla Campania). E in mezzo una grande Roma/Regione, magari anche più estesa della attuale provincia (in questo caso avrebbe senso un forte decentramento municipale). Un vero e proprio distretto federale, con una dote di almeno 1 miliardo di euro, ricavata dalla abolizione della regione Lazio.

In alternativa, se si non vogliono introdurre grandi cambiamenti, è meglio razionalizzare la situazione istituzionale esistente, prevedendo finanziamenti speciali per le funzioni di Roma capitale (con gli strumenti legislativi esistenti, che possono essere aggiornati) e trasferendo, con procedure concertate, (da stato, regione e provincia) le funzioni indicate dalla legge sul federalismo fiscale.

Tertium non datur, altrimenti il rischio del papocchio è forte.

Scelti per te