Italia unita? Cento capitali, diecimila campanili

Si può dire che Firenze è la Lecce della Toscana, che Atene è la Nuoro della Grecia, che Venezia è la Amsterdam dell’Adriatico? No, non si può. Si può dire, invece, e si dice, che Lecce è la Firenze della Puglia, che Nuoro è l’Atene della Sardegna, che Amsterdam è la Venezia dei mari del Nord. Questa possibilità è legata alle differenze, unanimemente riconosciute, che ci sono fra città e al primato che la storia e la cultura hanno assegnato ad alcune di loro. Più che assegnato si dovrebbe dire che quelle città se lo sono guadagnato, questo primato, con una avventura di secoli.

Nella mania di celebrare, in modo del tutto retorico e fin dai prossimi giorni, il 2010 come centocinquantesimo dell’ unità d’Italia , queste profonde diversità fra italiani ( e non solo) , vengono troppo spesso ignorate e dimenticate, lasciando alla Lega e ai suoi rappresentanti, l’ingrato compito di rappresentarle e sfruttarle a fini assai sgradevoli, magari per dire che in val Brembana prolifera una razza superiore a quella che nasce in Sicilia o in Senegal.

Più di trent’anni fa, molto prima che Bossi , ascoltando Gianfranco Miglio e non Kenichi Ohmae, avesse decretato la fine dello stato nazione e quando Calderoli e Maroni erano ancora innocenti, un gruppo editoriale, quello dell’Espresso, del quale all’epoca facevo parte, basò una delle sue più fortunate attività proprio sulla intuizione di questo ovvio riconoscimento: la legittimità dei campanili.

Alla fine degli anni ’70, si andava imponendo nel nostro Paese un tipo di società che privilegiava consumi diversi, nuovi bisogni, egoismi individuali e corporativi e che individuava anche la politica come servizio pubblico. C’era anche chi l’aveva già individuata come servizio privato. Alcuni editori sentirono dunque la necessità di un altro modello di giornale, non di opinione o di parte come quelli esistenti, ma di pubblico servizio, neutro e asettico come il telefono, il treno o le poste : un giornale che , se voleva superare la barriera della diffusione – ancora ristretta in Italia ai ceti più colti e impegnati – doveva essere inevitabilmente , come si disse allora, “popolare”. E ci fu chi dava a quella parola “popolare” una accezione deteriore. Ma non poteva esserci in Italia un giornale popolare nazionale.

Non poteva esserci, perché l’Italia è un paese che solo da poche generazioni ha realizzato l’unità nazionale. Oltretutto sulla carta e non di fatto. L’ Italia non ha una capitale egemone, come è Londra per l’ Inghilterra o Parigi per la Francia. L’Italia è composta da aree molto diverse , per sviluppo economico ma anche per radici culturali. Storia e geografia hanno infatti determinato convinzioni e codici di informazione assai differenti da città a città, su famiglia, lavoro, fisco, giustizia, burocrazia, salute, relazioni fra i sessi, ruoli della donna e dell’ uomo, pena di morte, istruzione, vocazione militare, patria, religione, mafia, tempo libero, immigrati , rapporti con carabinieri e polizia, rispetto per l’ ambiente. L‘Italia è così frammentata che le regioni storiche, costituite in vere e proprie nazioni, spezzano o scavalcano i confini amministrativi.

Si potrebbe dire che se si supera la barriera dei sei o sette milioni di italiani che partecipano, sentendosi protagonisti, alla vita associata, se ne trovano altri cinquanta milioni che in realtà vivono entro orizzonti più ristretti, certo si riconoscono come italiani, ma oltre che italiani si sentono siciliani, toscani, veneti, liguri, emiliani, sardi, milanesi, romani, abruzzesi e così via . E non c’è nessuno fra gli italiani, né fra i primi né fra i secondi, che non dichiari: sono italiano, ma sono toscano, o romagnolo o lombardo. Io sono di Firenze, io sono di Roma, io sono di Mantova ( “… e l’un l’altro abbracciava…“) .

In Italia ci sono tante piccole patrie e non è un caso che non ci sia un solo dialetto italiano che esprima l’ equivalente della parola “patria”. Queste aree a forte autonomia hanno la loro capitale tradizionale, si pensi a Genova, Venezia, Napoli, Bologna, Firenze, ma anche alle piccole Mantova, Siena, Lucca , alle piccolissime Cortona, Volterra, Orvieto, Urbino, Rossano Calabro, Cefalù.

Fare un giornale popolare nazionale negli anni Settanta era dunque ( e lo è ancora, anche se molte condizioni sono cambiate) una contraddizione in termini: il vero giornale popolare nazionale – pensò allora l’editore dell’Espresso – non è un giornale unico, ma, date le caratteristiche del nostro Paese, un giornale fatto di molti giornali, una catena di quotidiani locali, ciascuno con la propria individualità, corrispondente al proprio territorio, alla propria piccola patria. E dal 1978 quel gruppo editoriale si mosse in questa direzione.

Prima degli anni ’70 , non era stato possibile realizzare un nuovo tipo di giornale, fatto di tante testate collegate, perché non c’erano ancora calcolatori che colloquiavano in tempi reali. Soltanto allora, in effetti, si erano create le condizioni tecnologiche e di mercato. Ma questo episodio editoriale può essere ricordato per indicare come il mondo della politica arrivi troppo spesso in ritardo sulle realtà culturali ed economiche che si movono nel Paese.

C’è da immaginarsi che cosa accadrà nel 2010. Chi celebrerà l’ unità d’Italia come progetto malamente riuscito della borghesia del Nord, chi ne approfitterà per esaltare un impossibile ritorno ai Papi e ai Borbone, chi la celebrerà solo per negarla e invocare la Padania come succursale della Baviera, e al contrario chi dimenticherà, in nome della patria comune, che c’è una bella differenza fra liguri e pugliesi, lombardi e toscani, veneti e siciliani, che questa è la nostra bizzarra natura, questa è la nostra ricchezza.

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