ROMA – Francesco Belsito, tesoriere della Lega, anzi “ottimo tesoriere” come pubblicamente teneva a definirlo Umberto Bossi il 26 di marzo, appena otto giorni fa. Francesco Belsito, tesoriere della Lega cui la Lega, riunita in apposito vertice a via Bellerio, confermava fiducia e stima ed era una decina di giorni fa. Francesco Belsito che con i soldi pubblici, i “rimborsi elettorali” pagati alla Lega dallo Stato e dai contribuenti faceva affari. Se siano stati affari illeciti o no, se sia stato commesso reato di riciclaggio o meno, se quei soldi siano andati almeno in parte ai consumi privati della famiglia Bossi lo decideranno le indagini, i magistrati e lo valuteranno poi gli elettori leghisti e tutti i cittadini. Diamo per buona l’ipotesi al momento meno probabile o comunque la meno “gridata”, assolviamo Belsito da ogni sospetto, fondato o meno che sia. Restano però due fatti: Belsito di quei soldi pubblici faceva quel che voleva senza dover dar conto alla collettività che paga ma solo, forse, alla famiglia politica di appartenenza e Belsito, il leghista e “nordista” e “padano” Belsito nella sua ricerca di affari non ha avuto remore ad avere contatti, a imbastire affari con “broker”, procacciatori appunti di affari che nel loro carnet di “clienti” avevano ed hanno la “sudista” e calabrese ‘ndrangheta.
Il primo fatto accomuna la Lega a tutti gli altri partiti. Partiti che hanno voluto e si sono dati una legislazione che consente loro di intascare decine di milioni di finanziamento pubblico senza dover dar conto di ciò che ne fanno a nulla e nessuno se non ai rispettivi capi politici. Con queste leggi, volute e difese da tutti i partiti Lega compresa, i Lusi, cioè gli amministratori che considerano e trattano quei soldi come bottino privato, più che un “infortunio” sono una conseguenza. Quando si scopre che un tesoriere di partito di quei soldi ha fatto strage coriandoli, quando si viene a sapere che un tesoriere di partito quei soldi li dava a chi voleva, li “investiva” dove e come voleva, talvolta trattenendoli per se stesso, familiari ed amici, allora i partiti si dicono “parte lesa”. Questo no, questo i partiti non hanno diritto di dirlo: sono stati i partiti a creare e a volere e a difendere l’ambiente in cui possono nascere e fiorire e operare i Lusi e, si vedrà fino a che punto, i Belsito. I partiti sarebbero traditi dai loro tesorieri se avessero preteso e accettato controlli pubblici su quei soldi che i contribuenti pagano loro perché facciano politica e non affari e favori. Non hanno mai voluto farlo e quindi non sono “parte lesa”, a meno che per parte lesa non si intenda un socio d’affari, verrebbe da dire un complice, che nella spartizione ha avuto meno di quanto si aspettasse.
Il secondo fatto, il contatto d’affari con il broker che ha nel portafoglio clienti anche la cosca calabrese e ‘ndranghetista dei De Stefano è il fatto che dovrebbe purtroppo togliere ogni illusione sulla “diversità” della Lega. Affare lecito o illecito che sia, la sostanza civile non cambia. Tutta la narrazione, tutta la retorica, tutto il sogno leghista si fonda su una diversità antropologica-territoriale tra il ceto dirigente politico “padano” e quello meridionale e “terrone”. Di qua la gente che fatica, di là la gente che ruba allo Stato. Il Nord che paga, il Sud congenitamente criminale che succhia i proventi della fatica altrui. Sulla base di questa narrazione e di questa ideologia cosa dovrebbe fare un tesoriere leghista e padano di fronte alla possibilità di incontrare, avere rapporti, fare affari con un uomo che fa affari anche con la ‘ndrangheta? Dovrebbe fuggire urlando di aver visto il diavolo. E invece Belsito non è fuggito, non ha gridato, ha incontrato, trattato, studiato gli affari da fare. Vale la pena di ripeterlo: anche se quegli affari dovessero risultare totalmente leciti ed esenti da reato, un leghista mai e poi mai dovrebbe intrecciare affari con broker che hanno come clienti la ‘ndrangheta.
Non sapeva Belsito chi fosse il suo interlocutore e potenziale socio? Se sapeva, riteneva di essere più furbo e più abile? Pensava Belsito che un affare andato in porto valesse un discutibile contatto? E, se così pensava, lo pensava da solo, ovviamente ad “insaputa” di tutta la Lega oppure la sua era una “pragmatica” idea condivisa, insomma la solita idea che il denaro comunque non “puzzi” mai? In ogni caso quel contatto tra il tesoriere della Lega con il broker con contatti con la ‘ndrangheta è il peggior “reato” politico immaginabile da parte di un “padano”. Anzi, era difficile immaginarlo. Appartiene alla fisiologia delle cose che anche un “padano” possa rubare o malversare. Possono essere, se ci sono, eccezioni e deviazioni. Ma che un “padano” possa far società con un uomo vicino alla ‘ndrangheta è patologia profonda e inaspettata. Forse, molto forse, non c’è reato in fondo alla disinvolta gestione del denaro pubblico da parte di Belsito. Forse, anzi quasi di sicuro, tutto nasce dall’equivoco, tanto voluto quanto incivile, per cui quel denaro viene vissuto dai partiti, Lega compresa, come “roba” loro e non come roba che i cittadini contribuenti ed elettori loro assegnano. Forse, di sicuro in quell’andare di Belsito per broker, qualunque broker di qualunque affare, c’è qualcosa di profondamente marcio. Marcio al cuore della società e al cuore della Lega.