ROMA – Al 27° minuti del primo tempo di Polonia-Russia Fulvio Collovati disse: “I sovietici stanno attaccando”. Un lapsus, un momentaneo e inconsulto “già detto” del telecronista, un riflesso antico di un tempo antico, affiorato alle labbra solo per caso? No, perché due minuti dopo Collovati precisa: “La squadra sovietica”. E va avanti così. Dunque chiamare “sovietici” i russi, venti anni dopo. Come chiamare in una telecronaca del 1965 i tedeschi “i nazisti”, gli italiani “i fascisti”. O come chiamare in una telecronaca degli anni ottanta gli spagnoli “i franchisti”. O come scrivere in un giornale del 1835 a proposito dei francesi “i napoleonici”. Ma non vogliamo affaticare Collovati con questa abbuffata di storia, peraltro minima ed elementare. Con Collovati ci congratuliamo perché nessun russo lo ha sentito l’altra sera chiamarli “sovietici”, non avrebbero gradito e neanche sorriso.
Perché, anche se Collovati non lo sa, prima c’era l’Urss e ora c’è la Russia. Urss, cioè Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. E che vuol dire sovietiche, vuol dire dei soviet, che non sono geografia ma politica: finiti i soviet, finita l’Urss. Ma vogliamo chiedere a Collovati, ai Collovati, cos’era un soviet? Non esageriamo, però visto che sono tra Polonia e Ucraina una domandina sul perché prima l’Ucraina fosse “Urss” se la potevano fare, aiutati dalla circostanza per loro intellegibile che sono diventati due…squadre di calcio. Ma perché mai i Collovati dovrebbero sapere e pensar di queste cose? Si vive anche senza sapere dei soviet e dell’Urss. Peccato che i Collovati siano gli “esperti” della Rai. Esperti e pure pagati, neanche poco. Non è che passano di là e dicono quel che possono gratuitamente. Così, visto che son tutti pagati, sarebbe sano evitare di dover sentire dell’Ucraina come “paese compassato”. Compassata l’Ucraina dalla storia passata fatta di carestie, pogrom e fiammate di guerra civile? Compassato un paese dove la diplomazia europea stenta ad andare perché il leader dell’opposizione politica è in galera?
Dice: ma sono esperti di calcio. Bene, nessun dubbio che lo siano. Peccato però che dopo aver detto: “Aggredire gli spazi”, “Fare la differenza”, “Aumentare l’intensità” altro non riescano a dire. Qualche coraggioso tra loro l’altra sera si è azzardato: “Poteva tirare in porta, sempre che la palla gliela…” E qui è partita un arrotare di “dass, dess, dia…” che ha ricordato il miglio Paolo Villaggio quando di fronte ai congiuntivi lamentava “l’italiano è una lingua pazzesca”. Infatti l’essere esperti di calcio per averci giocato al calcio non è sinonimo, non garantisce della capacità di raccontare e divulgare il calcio. Un grande matematico muto difficilmente terrà una lezione pienamente comprensibile, un abilissimo falegname illetterato difficilmente lascerà la sua arte in un libro. Invece gli ex calciatori, peraltro allenati lungo tutta la loro vita professionale a diffidare della parola e a disertare la frase, vengono poi presi come esperti e pagati per parlare. Stranezza che ottiene l’effetto sovietici al posto dei russi, modello Collovati. Oppure c’è il modello Vincenzo D’Amico: lui parla, eccome se parla ma dice in fondo una cosa sola: nessuno sa giocare bene a pallone di quelli che vede. D’Amico lo dice sempre a tutti a mezzo Rai: tutte più o meno “pippe”, tranne, lui non dice ma lascia chiaramente intuire, quello che ora parla ma prima giocava. E li pagano pure.