ROMA – Fico in bus, il presidente della Camera Roberto Fico che arriva a stazione Termini, dà un’occhiata ai taxi e poi sale sul bus numero 85, direzione centro città, Montecitorio. Bene, bella scena. Bella comunque, anche fosse stata recitata solo per i fotografi.
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Bene, bravo Fico in bus perché, anche a prepararsela prima la scena del presidente in bus, resta nel metterla in atto un che di genuino e comunque, fosse anche solo per un giorno, è un bel vedere. Bene, bravo Fico in bus. Non fosse altro perché scene del genere in Italia fanno…scena.
Fico in bus, bene, bravo, bis. Soprattutto bis. Bis che molti dubitano ci sarà davvero, considerando con una certa dose di acrimonia la impraticabilità concreta di un presidente della Camera sempre in bus.
Forse hanno ragione quelli che prevedono non ci saranno molti bis di Fico in bus. Di certo nell’accogliere male e mal salutare la performance mobilità pop del neo presidente della Camera c’è realismo ma anche, evidente, un…un quello che a Roma e non solo a Roma si chiama “rosicare”.
Correre a far notare che, da note spese allegate e pubbliche, Roberto Fico per andare alla Camera nel 2017 il bus lo ha preso solo 15 volte e tutte le altre volte il taxi è…reale quanto rosicone. Rosicare è star lì a salmodiare: non lo farà più, non lo farà più…Un po’ di amaro rosico c’è anche nella dotta e giusta considerazione per cui Fico presidente è lo Stato e lo Stato deve essere protetto e proteggerlo non è privilegio. Tutto vero, ma anche tutto detto e scritto a denti stretti, nell’espressione mandibolare di chi, appunto, rosica un po’.
Bene, bravo, bis Fico in bus. Abbiamo risparmiato noi cittadini 15 euro di taxi. Divisi tra 40 milioni di contribuenti fa…Che facciamo, rosichiamo anche noi? No, ci viene però un dubbio, anzi un’ansia: e se Fico avesse dato così il meglio di sé? Se mostrare al popolo 15 euro di soldi pubblici risparmiati, non spesi, oggi 15 qui e domani 15 là, fosse il meglio, il tutto, il cuore della nuova cultura, ideologia, governo? E contemporaneamente fosse il meglio e il più che la gente si aspetta?
Dicono, si legge, si sostiene che cultura, ideologia, pratica e fede M5S siano segnate da pauperismo, da un sentir comune dove il denaro è sterco del diavolo che inevitabilmente corrompe. La decrescita felice, l’età dell’oro in cui la civilizzazione non aveva corrotto l’individuo…un po’ di cattolicesimo nella versione francescana, un po’ di Rousseau (quello del buon selvaggio, non quello della volontà generale). E poi la diffidenza verso il Pil che non calcola la qualità della vita e poi l’orrore quasi panico verso le grandi opere (in verità anche quelle piccole) dove per realizzarle occorre appunto far girare denaro.
Dicono, si legge, si sostiene siano cultura, ideologia, pratica e fede nuove. Creature neonate o poco più per reazione alla finanza che si è mangiata l’economia reale, per risposta alla globalizzazione, per rigetto di un sistema che dimentica…che i soldi non sono la felicità.
Dicono, si legge, si sostiene…A noi non pare sia così. E il gesto di Roberto Fico che va in bus a Montecitorio ci conferma nell’ansia e nel dubbio. Dubbio e ansia che non sia nuova cultura e ideologia pauperista, francescana, anti sistema. Il dubbio e l’ansia che sia qualcosa di meno alato ed ascetico e alternativo, molto meno. Il dubbio e l’ansia che si tratti dell’ossessione compulsiva per i soldi e non contro i soldi.
L’ossessione compulsiva per i propri soldi di cui si vorrebbe in fondo non un euro andasse allo Stato e alle sue spese. L’ossessione compulsiva anti tasse (ogni tassa, tutte le tasse) che vive come scippo al proprio borsellino e portafoglio ogni spesa di quell’estraneo che è lo Stato. L’ossessione compulsiva per la propria “roba” da cui borghesia, ceti popolari e ceti dirigenti italiani da due secoli almeno non si sono mai staccati considerando in gruppo la “roba” di Stato “roba” di nessuno e di nessuna utilità.
L’ansia e il dubbio quindi che il piacere, anche nostro, di vedere Fico in bus non sia la richiesta di una nuova e limpida forma di essere cittadino di una comunità, ma l’incapacità trionfante di essere davvero cittadini di una res publica.