Spesa, ultima battaglia. Governo dice crescita, inietta veleno

di Lucio Fero
Pubblicato il 14 Ottobre 2011 - 15:49 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Il giorno prima del voto di fiducia al governo Bankitalia ha scoperto, davanti al Parlamento, l’acqua calda. Ma è un’acqua calda che ustiona, magari solo scottasse. L’Italia paga sempre più tasse e ancora di più ne pagherà nei prossimi due anni e mezzo per effetto della manovra. L’obiettivo del pareggio di bilancio a fine 2013 sarà raggiunto, se lo sarà, soprattutto attraverso nuove tasse, circa il 60 per cento, se non di più, del totale della manovra. E si arriverà così da domani, anzi da oggi fino a fine 2013, ad una pressione fiscale complessiva intorno al 44/45 per cento del Pil. Vuol dire che se il Pil, il totale della ricchezza prodotta in un anno, è pari a mille, allora l’Italia paga di tasse 440/450. Ma non è finita, queste sono solo le tasse “centrali”. I governi locali, Regioni, Comuni e Province sono diventati idrovore fiscali e si avviano ad assorbire ancora di più per via di “addizionali”. Un di più pari a circa il 20 per cento della pressione fiscale “centrale”, più o meno il nove per cento del Pil. Sommando le tasse centrali e quelle locali si arriva al 53 per cento circa del Pil. Un’enormità, un masso capace di comprimere e schiacciare non soli i bilanci e i redditi di chi le tasse le paga, anche per gli altri che evadono, ma anche l’economia e la cosiddetta “crescita”.

Eppure non basta mai, è un “sacrificio” enorme che non risolve. Infatti anche con questa intollerabile pressione fiscale il debito pubblico italiano non viene intaccato: le tasse lo inseguono ma lui resta imprendibile. E’ una corsa dolorosa e spinosa che non arriva mai al traguardo. Il perché è drammaticamente semplice: per abbassare il debito, questione vitale per il paese, le tasse non basteranno mai. Per aggredire il debito devi o abbassare la spesa pubblica o aumentare il Pil. Di abbassare davvero la spesa pubblica in questo paese se ne parla molto ma poco se ne fa davvero. L’ultima manovra ha dichiarato intangibile la spesa sanitaria, sostanzialmente intoccabile quella previdenziale, di fatto immune da tagli la spesa per la politica. E Regioni, Comuni e Province, a loro volta gigantesche centrali di spesa sempre in espansione, recalcitrano ai tagli e, se tagli subiscono nei soldi che ricevono dallo Stato, ricorrono appunto alla tassazione locale. In più ampi comparti della spesa pubblica sono per varie ragioni incomprimibili, nobili ragioni sociali, oggettive ragioni di pubblica utilità e pubblici servizi, pessime ragioni politiche, collusive e collose ragioni di richiesta di spesa da parte di corporazioni e territori. Sono 800 circa i miliardi di spesa pubblica ogni anno. Pari a circa il 45% del Pil. Percentuale in espansione nonostante i limitati tagli effettivi. Guardate allora le percentuali: 45% del Pil di tasse, in espansione e 45% di spesa pubblica in espansione. Le due cifre collimano non a caso: le tasse, sempre più tasse, servono in sostanza a finanziare la spesa pubblica.

Ma non è un pareggio, tanto meno di bilancio. Perchè alla spesa vanno aggiunti i circa ottanta miliardi annui di interessi da pagare sul debito pubblico. Interessi in crescita se i tassi continueranno a stazionare tra il 5 e il 6 per cento, se gli spread stanno a quota trecento e anche sopra. Nel 2012 l’Italia deve vendere circa 400 miliardi di titoli di Stato in scadenza. Li aveva venduti anni fa ad un interesse medio del 3/4 per cento, se li rivende ad un interesse del cinque, sei per cento, allora i quasi ottanta miliardi da pagare pian piano e neanche tanto piano diventano quasi novanta miliardi. Ma le tasse, la montagna di tasse che l’Italia paga, finiscono per essere sacrificio al netto del debito che il debito non intacca, servono solo a pareggiare, in una corsa con la lingua di fuori, la spesa.

Allora non tagliare ma amputare la spesa? Certo quegli 800 miliardi sono troppi e qualcosa di meno si potrebbe spendere. Ma amputare la spesa di cento/duecento miliardi non si può. Sarebbe questa sì “macelleria sociale” con sangue vero, quella facilmente denunciata ogni giorno è solo un’escoriazione. Qualche decina di miliardi di spesa pubblica in meno non sarebbe salasso ma ossigeno e pure giustizia e decenza sociale. Ma qualche decina di miliardi, non di più. E allora come si fa? Come si ferma e si inverte l’avvitamento dell’economia italiana e della vita degli italiani verso il basso?

Solo aumentando, o almeno provando ad aumentare il Pil, la ricchezza prodotta. La cosiddetta “crescita”. Spieghiamo perché: se hai un debito di mille euro ma non guadagni un euro nessuno crederà tu possa restituire il debito. Se hai un debito di centomila euro e ne guadagni mille al mese lo scetticismo sulla tua stabilità e solvibilità resterà enorme. Ma se hai centomila euro di debito o anche duecentomila e ne guadagni diecimila al mese, allora nessuno dubiterà della tua capacità di ripagare. E anche se hai un debito di un milione di euro e ne guadagni ventimila al mese sarà facile che ti facciano credito. Funziona così nei bilanci familiari, funziona così anche per le nazioni e gli Stati. Quindi aumentare o provare ad aumentare il Pil, la ricchezza prodotta.

Si può fare, si può provare a fare. Si chiama crescita. Si può provare a farlo abbassando le tasse sul lavoro e sull’impresa, rendendo più competitivi i prodotti e più capaci di spesa i salari. Ma, per non “sballare” sul piano fiscale, se abbassi le tasse sul lavoro e sull’impresa, allora devi pareggiare il calo di queste tasse con i proventi di altre tasse, appunto quelle che già ci sono e quelle che verranno. Questa, la cosiddetta “crescita” deve essere la destinazione dell’aumentata pressione fiscale. Un esempio: se fai la patrimoniale sulla casa i soldi che ne vengono devono andare ad abbassare l’Irpef. Si tratta di spostare ricchezza dal patrimonio alla crescita economica. Questa è l’unica crescita possibile, quella vera.

Purtroppo quella che invece sta per essere spacciata per “crescita” è autentica iniezione di veleno nell’economia. Una patrimoniale o un condono fiscale, una tassa sulla casa o un condono edilizio, paradossalmente non importa cosa porti nuovi soldi al fisco, destinata a pareggiare la spesa di Ministeri, Regioni, Comuni, Province, Previdenza, sovvenzioni e assistenza varia è suicidio. E’ come dare una spinta a una macchina per farla ripartire, ma una spinta verso il burrone, la macchina riparte e finisce nel burrone. La “crescita” cui sta disperatamente lavorando il governo, quella che Berlusconi vorrebbe per riconquistare consensi, quella invocata dai tanti Scajola, Stracquadanio e Crosetto nel Pdl, quella invocata dai ministri, dai governatori e dai sindaci è di questo tipo: velenosa. Prelevare soldi dalla previdenza o dalla patrimoniale o dal condono per mantenere al spesa, anzi ripristinarla grassa e in crescita come è da decenni è suicidio. Prelevare soldi dalla previdenza o dalla patrimoniale o dal condono per abbassare le tasse su lavoro e impresa è invece concreta anche se difficile ipotesi di crescita economica. Purtroppo non è solo il governo e la maggioranza a rimestare il pentolone del veleno e a preparare l’iniezione letale. Alla “crescita” come ripristino di spesa sono affezionati i sindacati, tutti i sindacati, dalla Ugl alla Fiom passando per Bonanni, Angeletti e Camusso e senza dimenticare Confcommercio ed affini. Crescita come ripristino di spesa è il sogno dei “Consumatori” di Trefiletti e insieme il cemento del “cantiere” di Vendola. Crescita come ripristino di spesa, spesa finanziata dalle tasse è in fondo anche l’urlo disperato degli indignati in piazza. La differenza, la grossa differenza, è tra chi vuole ramazzar soldi per via di condono e chi si illude basti tassare i ricchi. Ma sia i condoni che i ricchi possono essere spremuti, una volta, due, tre. Poi l’albero si secca. E se nel frattempo non è ripartito il Pil, se i soldi delle tasse non sono andati al lavoro e all’impresa, se il debito è rimasto là, abbondantemente sopra il 100 per cento del Pil (ora è al 120), si va tutti a fondo.

Ottenuta una fiducia a breve conservazione, il governo Berlusconi combatterà la sua ultima battaglia sul cosiddetto decreto sviluppo, cioè sulle misure per la crescita. Ma la crescita come loro la intendono è salvare la spesa di tutti per tutti. Puro veleno. Sarebbe l’ultima iniezione di veleno nell’economia, speriamo che la siringa gli si spezzi in mano. E se chi dovesse venire dopo il governo Berlusconi somministrerà più o meno lo stesso tipo di veleno, allora davvero speranza addio. Il dramma, l’ulteriore e forse irrisolvibile e irredimibile dramma, è che questo veleno la gente lo chiede e lo aspetta come un balsamo: ollellè, ollalà, no alla Bce, no all’austerità è in fondo drammaticamente lo stesso slogan e la stessa parola d’ordine del corpo del Pdl, dell’anima della Lega, degli scioperi sindacali e delle piazze dei giovani.