Stipendi statali, quei 4.800 euro “in meno” in cinque anni

Stipendi statali, quei 4.800 euro "in meno" in cinque anni
Foto di repertorio

ROMA – Un mio amico scommette regolarmente sulle partite di calcio italiane ed europee, quando indovina i risultati e vince, incassa. Quando non indovina e non incassa dice: ho “perso X euro”. Considera infatti perdita la mancata vincita. Per lui quei soldi che la scommessa non ha portato sono soldi “in meno”. Praticamente tutti quelli che conosco, se e quando dovessero fare un investimento finanziario, insomma provare a far fruttare per via di finanza o di Borsa i loro soldi, riterrebbero doveroso e nell’ordine naturale delle cose che l’investimento stesso sia remunerativo. Se così non fosse, se l’investimento che pure è sempre rischio, non porta soldi a casa allora tutti, praticamente tutti, sono pronti a giurare di averci perso, di avere in tasca soldi “in meno”.

Mi vengono in mente Scilla dello scommettitore che considera perdita la mancata vincita e Cariddi del risparmiatore che se non guadagna da cedole, rendimenti e azioni allora si sente truffato e fregato, privato dello “in più” che gli spetta. Tra questi Scilla e Cariddi naviga l’avventurosa nave dell’aritmetica dei sindacati. Eccola l’aritmetica: 600 euro “in meno” a dipendente per il blocco dei salari pubblici nel 2015 e 4.200 euro “in meno”, sempre a testa e in media, per il blocco degli stessi stipendi nei quattro anni precedenti. Calcoli e concetti della Cgil.

Fate attenzione, facciamo rispettosa e non insolente o spocchiosa attenzione su quello “in meno”. Contabilmente, materialmente, in soldi, soldoni e soldini quello “in meno” è una bugia. In meno si dice, si dà e si calcola quando una busta paga pari a cento diventa qualcosa meno di cento. Questo non è mai accaduto nei quattro anni di blocco degli stipendi pubblici e non avverrebbe neanche nel 2015 se il blocco dovesse continuare. Blocco significa blocco: se prendevi cento, prendi cento. Questo e non altro è il blocco.

Ma chi fa quel calcolo non intende dire che gli stipendi pubblici sono “in meno” in cifra assoluta, intende dire altro. Già, però lo fa balenare, lampeggiare quel “meno” che nella realtà non c’è. Lo fa in minima parte percentuale in microscopica malafede, sapendo dire una falsità. Falsità però che fa effetto propaganda, falsità che rimbalza dai titoli dei tg agli umori della gente. Soprattutto però lo fa, usa e diffonde quello “in meno”, perché, in genuina e perfetta buona fede, pensa e calcola che l’aumento di stipendio più o meno automatico dopo tot anni sia doveroso, nell’ordine naturale delle cose. Insomma “spetti”. E, se non arriva, sono quindi soldi “in meno”.

I circa cinquemila euro in cinque anni “in meno” per i dipendenti pubblici sono il calcolo Cgil, probabilmente corretto, di quanto gli stessi dipendenti avrebbero percepito “in più” se i contratti fossero stati rinnovati. L’esatta dizione di quanto accade non è cinquemila euro “in meno” ma cinquemila euro “in più” mancati.

Qui non si discute e neanche si valuta se il blocco degli stipendi pubblici sia sofferta ma dovuta misura oppure ingiusta e dozzinale cattiveria. Tanto meno si giudica o si apprezza la retribuzione media di un dipendente pubblico come “troppa” o comunque non meritevole di incremento. Parliamo nel 2013 di retribuzione medie del pubblico impiego pari a 27.527 euro. Ognuno giudica con facilità quanto poco comodi si possa stare con queste cifre (va comunque anche ricordato che la retribuzione media nel settore privato sempre nel 2013 era di 27.044 euro, circa 500 stavolta davvero in meno del settore pubblico e che nel 2010 i 27.472 euro medi del settore pubblico si confrontavano con i 25.531 euro del settore privato, differenza quindi più 1.900 circa a vantaggio dei dipendenti pubblici).

Qui si rileva che i 27.472 del 2013 per il dipendenti pubblico medio sono diventati nel 2013 27.527 euro. Non un euro in meno, neanche uno. Stipendi bloccati appunto come evidenzia due cifre praticamente gemelle. E si constata come non solo i dipendenti pubblici ma l’intero sistema  socio economico in tutte le sue componenti calcoli “in meno”, viva e percepisca come sottrazione ciò che in realtà è mancata conquista, mancato “in più”.

Una universale e narcotizzante cultura e abitudine al “mi spetta” ha cancellato la nozione che lega lo “in più” al verificarsi di alcune condizioni. Che sono la redditività dell’azienda, il miglioramento della prestazione individuale, la produttività e via ancora. Decenni consecutivi di uno “in più”, anche poca cosa ma comunque in più, hanno indotto l’idea che “in più” sia legge e diritto naturale, un po’ come il sorgere e tramontare del sole. Sono culture, abitudine, aritmetiche che si sono fatte costume ed ideologia. Costume ed ideologia che consumano e consumeranno questo paese, la sua economia e società civile, fino all’ultima fibra.

Occorrerebbe ricominciare ad imparare che lo “in più” non è stabilito né garantito, tanto meno “spetta”. Te lo devi sudare applicando inventiva, tecnologia, flessibilità. Anche se “giusto” perché gli stipendi sono bassi, lo “in più” non c’è più per via automatica o a seguito di pressione di lobby o sindacato. O forse no, qui una qualche ragione il sindacato ce l’ha quando con Bonanni, Cisl, polemicamente domanda perché si sia lasciata cadere la chiusura immediata di 1.200 municipalizzate “non operative”, perché tanti riguardi a Regioni e Comuni e alle loro aziende, perché nel 2015 non tre miliardi da qui invece che dal blocco degli stipendi pubblici. Già, perché premier Renzi?

Qui, su questo Bonanni ha ragione: la lobby dei poteri e governi locali è la più forte di tutte le lobby. Qui il sindacato avrebbe da dire e con ragione. Se solo poi non corresse a difendere qualunque ente inutile o “partecipato” da Regioni, Comuni e Province. Dove invece cascano le braccia è nell’ascoltare Susanna Camusso, Cgil, che dichiara “incomprensibile” il blocco. Già, lei in fondo pensa che i salari, almeno quelli dello Stato, debbano essere una “variabile indipendente”. Indipendente dal pianeta Terra.

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