Unione fiscale e poi Bce compra: i 10 giorni che ci salvarono il sedere?

ROMA- Dal 29 novembre al nove dicembre: i dieci giorni che salvarono l’euro, l’Europa e ci salvarono anche il sedere? Martedì 29 novembre l’Eurogruppo avrà sul tavolo le proposte tedesche e francesi di “Unione Fiscale”. Tedesche soprattutto, un po’ francesi ma un filo anche italiane. Unione fiscale vuol dire “qualcuno” o “qualcosa” che in Europa ha diritto di esame preventivo ed eventualmente di veto sulle leggi di bilancio che votano i Parlamenti degli Stati con deficit eccessivo. Significa che chi ci sta accetta che le sue leggi nazionali non “valgono” se quel qualcuno o qualcosa dice che sono leggi non sostenibili da una “cassa comune” collettiva. Chi ci sta rinuncia alla sovranità nazionale in materia di bilancio. Chi non ci sta resta fuori. Fuori dalla protezione e garanzia.

Protezione e garanzia che, il giorno dopo il varo della “unione fiscale” assumono la forma di un prestito della durata di due o tre anni di liquidità alle banche europee da parte della Bce e, soprattutto, una Bce che nelle settimane successive annuncia limiti, obiettivi e confini di spread per i titoli di Stato dei paesi che sono “dentro” l’unione fiscale. Limiti, obiettivi e confini tra il quattro e il cinque per cento a fronte degli attuali che vanno dal sei all’otto per cento. Sopra il quattro/cinque per cento la Bce interviene e compra appunto con quel tasso di interesse i titoli di Stato. Così dà ai paesi dell’unione fiscale la liquidità per rifinanziare i loro debiti a tassi inferiori a quelli oggi richiesti dal mercato. Tassi più bassi, in modo da non “strozzare” quei paesi, ma tassi sufficientemente alti perché quei paesi restino di fatto obbligati a ridurre il debito. In più l’unione fiscale dovrebbe prevedere sanzioni automatiche per chi trova comunque il modo di “sgarrare”, violare le regole sottoscritte. Sanzioni che potrebbero essere impartite perfino dalla Corte di Giustizia europea.

Chi ci sta…Chi ci sta davvero si vedrà il nove dicembre. La Germania di sicuro che chiede appunto l’unione fiscale per sciogliere le briglie alla Bce. E la Francia. E anche l’Italia. In parte perfino la Gran Bretagna che è fuori dall’euro: Londra ci sta per la parte che riguarda quel “qualcuno” o “qualcosa” che controlla gli Stati nazionali. Londra si ferma per ora al controllo e non arriva alle sanzioni. E la Grecia, e la Spagna e la Polonia e gli altri paesi europei? Dovrebbero starci, alcuni più per forza che per amore. Perché chi resta fuori resta fuori anche dall’ombrello della Bce. E altri “ombrelli” non si vedono o almeno non sono reali. Il Fmi non ha in cassa gli almeno mille miliardi che servirebbero per “coprire” le sole Italia e Spagna. E difficilmente può essere rifinanziato a breve perché gli Usa non hanno soldi da metterci dentro e il resto dei G20 non basta certo per triplicare o quadruplicare i circa 400 miliardi di cui il Fondo Monetario internazionale dispone.

Ma “starci”, stare dentro l’unione fiscale non è gratis politicamente e socialmente. Rinunciare alla sovranità nazionale in materia di bilanci è uno choc per forze politiche e pubbliche opinioni. Non c’è tempo per consultare gli elettorati ma un simile passaggio senza l’esplicito assenso degli elettorati è autentico azzardo sul piano della democrazia: nulla garantisce che domani gli elettorati boccino ciò che oggi eventualmente i governi dell’unione fiscale dovessero decidere. Starci in un’Europa che si avvia alla recessione economica vuol dire poi sottoporre gli stessi elettorati a doppio stress: cessione di sovranità nazionale e “sacrifici” sociali ed economici perché il rientro dal debito e il rispetto delle regole dell’unione fiscale non può essere finanziato dall’aumento del Pil ma soprattutto da minor spesa e maggior fisco.

Se però l’unione fiscale non c’è, la Germania non “scioglie le redini” alla Bce: le banche europee non  trovano liquidi e quindi non prestano soldi e forse qualcuna “salta”. Se l’unione fiscale non c’è, se la Germania non ha questa garanzia, non fa “cassa comune”. E quindi Italia e Spagna pagano l’otto per cento e forse più per vendere i loro titoli di Stato. Quindi lentamente ma non  tanto si avviano verso l’insolvenza. E se Spagna e Italia “saltano”, salta tutto, proprio tutto, non c’è al mondo Fmi che le acchiappi per i capelli. Dieci giorni: un calendario c’è, sia pure stretto e forzato. E c’è anche un piano, sia pure affannato e incompleto: chi è quel “qualcuno” e quel “qualcosa” e come davvero funzionerebbe? Calendario e piano su cui grava e pesa un colossale punto interrogativo: chi ci sta davvero, chi può permettersi davvero di starci? Se il punto interrogativo sarà più forte di calendario e piano, allora, più o meno, ciascuno per sé, euro per qualcuno e un qualche dio, solo quello, per tutti.

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