Figlio maggiorenne e mantenimento
Oggi, si sa, i ragazzi hanno difficoltà a rendersi autonomi. Infatti, è fenomeno assai diffuso quelle che vede ragazzi e ragazze rimanere presso la casa dei genitori anche in età non proprio verde: si laureano in ritardo e le occasioni di trovare lavoro sono difficili.
Con la crisi economica che stiamo vivendo, la situazione si è ulteriormente complicata. I genitori lamentano di dover provvedere alla gestione dei figli che, sebbene cresciuti, rimangono a vivere presso la casa familiare e restano economicamente a carico del padre e della madre, quasi sempre anche oltre i 30 anni. La maggiore età, nella società contemporanea di rado coincide con l’acquisizione dell’indipendenza economica da parte dei figli; indipendenza, che, spesso, non si raggiunge nemmeno con il completamento degli studi universitari.
Ne consegue la necessità di garantire ai figli maggiorenni la certezza del mantenimento sino a quando non raggiungeranno l’indipendenza economica, sia come obbligo derivante dalla procreazione, sia per lo sfondo solidaristico che è proprio della famiglia, intesa quale unità fondamentale dell’organizzazione sociale. Non sarebbe infatti conforme con i fondamentali principi dell’ordinamento, sollevare il genitore dall’obbligo di mantenimento, quando il figlio abbia raggiunto la maggiore età.
Le relazioni si complicano quando i genitori sono separati, perché uno dei due, quello non convivente con i figli, deve provvedere al mantenimento, con somme più o meno ingenti, che deve corrispondere mensilmente. L’ordinamento giuridico si preoccupa di garantire l’adempimento dell’obbligo, laddove esso sia posto a serio rischio, a seguito del dissolvimento dell’unione familiare.
La reazione emotiva del padre o della madre che deve provvedere al pagamento del sostentamento necessario per i figli ormai adulti è quasi sempre conflittuale. Da qui un notevole numero di procedimenti promossi, in genere dai padri (che sono i genitori che generalmente non convivono con i figli dopo la separazione), per chiedere l’eliminazione del contributo posto a loro carico. Tanto per completare il quadro, occorre anche indicare che questi stessi genitori, a loro volta, hanno creato ulteriori famiglie, con nuove compagne, nuove mogli e nuovi figli, per cui sono sottoposti ad un regime di spese veramente complesso e assai oneroso.
Sembra utile, in considerazione delle differenti posizioni e decisioni da parte della magistratura, esaminare le possibili risposte giudiziarie, a seguito dei ricorsi dei genitori per ottenere una pronuncia di cessazione del mantenimento.
Prendiamo spunto da due recenti decisioni del Tribunale di Milano e del Tribunale di Trieste: secondo il primo “ deve escludersi il diritto del coniuge separato a ottenere dall’altro coniuge un assegno per il mantenimento del figlio maggiorenne convivente se questi, benché allo stato non autosufficiente economicamente, abbia in passato iniziato a svolgere un’attività lavorativa, dimostrando così il raggiungimento di una adeguata capacità, idonea a far cessare l’obbligo di mantenimento da parte dell’altro genitore.”, per il secondo “il dovere di mantenimento del figlio maggiorenne ricadente sul genitore non convivente, mediante la corresponsione dell’assegno di mantenimento, cessa nel momento in cui il figlio acquista uno status di autosufficienza economica, consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato.”
Con la prima decisione, il Tribunale di Milano ha rigettato la richiesta di mantenimento perché il figlio risultava già da tempo inserito nel mondo del lavoro, sicchè conseguiva la possibilità, per costui, di far fronte in modo autonomo al proprio sostentamento, a nulla rilevando che lo stesso figlio fosse, al momento della proposizione della domanda, privo di stabile occupazione.
La seconda pronunzia, invece, ha riconosciuto il diritto al mantenimento per il figlio maggiore d’età. Nello specifico, il padre chiedeva di essere totalmente esonerato dal mantenimento della figlia, alla luce di un contratto di lavoro a tempo determinato che la ragazza aveva sottoscritto. Secondo la madre e la figlia, invece, la retribuzione percepita non permetteva alla ragazza di raggiungere l’autosufficienza economica, né, tantomeno, concretizzava la percezione di un reddito adeguato alla corrispondete professionalità maturata, durante il percorso di studi.
Insomma, gli orientamenti della giurisprudenza sono differenti e possono così riassumersi: c’è chi afferma che l’avvenuto inserimento nel mondo del lavoro, da parte del figlio maggiore d’età, determina la cessazione di qualsiasi pretesa, in merito a un eventuale contributo al suo mantenimento, da parte dei genitori. Secondo tale indirizzo, a nulla rileva l’eventuale ed attuale stato di disoccupazione stabile da parte del figlio stesso, attesa l’acquisita capacità di produrre reddito.
Altro indirizzo, invece, ritiene che il dovere di mantenimento non cessa per la sussistenza di una semplice occupazione, capace di garantirgli una qualsiasi retribuzione; in realtà, l’obbligo al mantenimento viene meno solo quando il figlio si trovi a percepire un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato. In questo caso, il diritto al mantenimento del figlio deve contribuire al migliore sviluppo della personalità del figlio stesso, in linea con i principi costituzionali, in particolare con l’art. 2 della Carta Costituzionale che “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.”
Si tratta, come sempre, di trovare un giusto equilibrio tra il dovere di solidarietà e un comportamento che rischia di assecondare una condotta poco costruttiva da parte dei figli ed assicurare loro un’ingiusta rendita.
I commenti sono chiusi.