La riorganizzazione delle società regionali costituisce uno degli obiettivi mancati dalla Presidenza Marrazzo. Le premesse erano buone ed anche il progetto, scaturito da una specifica Commissione tecnica, istituita all’avvio della legislatura . L’idea era quella di sfoltire drasticamente il numero delle società regionali, proliferate prevalentemente nel corso della Presidenza Storace (e in parte anche in quella di Badaloni) e riorganizzare le missioni ritenute utili e non gestibili con i normali strumenti amministrativi nell’ambito di Sviluppo Lazio, che avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di holding.
Le scatole inutili e costose erano molte e, a parte alcuni frammenti, sono rimaste intatte (in alcuni casi rivitalizzate). Le principali: Litorale, per valorizzare la costa (sic!); Risorsa, per la gestione del patrimonio (doppio sic!), addirittura una banca (la BIL, banca impresa Lazio).
La vera funzione di BIL è quella di scaricare il rischio di impresa dalle banche alla Regione, che garantisce i finanziamenti sul segmento meno strutturato. Un favore alle banche più che alle imprese, ed in particolare a quelle socie, insieme alla regione (rectius Sviluppo Lazio), di BIL (BNL, Unicredit, Intesa San Paolo, BCC). La cosa più coerente (che era stata peraltro proposta e istruita) sarebbe stata vendere la BIL (esisteva anche un acquirente) e riorganizzare gli strumenti della politica industriale, cercando di districare la farraginosa matassa stratificatasi nel tempo.
Oltre alla banca sono rimasti intatti tutti gli strumenti preesistenti a Sviluppo Lazio: la vecchia FILAS, eredità degli anni settanta, “reindirizzata” sulla innovazione tecnologica (triplo sic!); Unionfidi, creatura del vecchio assessore Angiolo Marroni (Presidenza Badaloni), che spazia, come un azzeccagarbugli, dalla prevenzione dell’usura alla sospensione dei mutui per le famiglie in difficoltà, passando per i crediti sanitari; BIC Lazio, per lo start up delle nuove imprese.
La holding Sviluppo Lazio, senza governare le varie società di cui ha formalmente il controllo, svolge una attività operativa eterogenea, che si sovrappone in modo disordinato a quelle della altre scatole. Motorini elettrici, pannelli solari, lavatrici e frigoriferi di nuova generazione, microcredito sono solo alcuni esempi di attività marginali che si affiancano alla tradizionale erogazione di finanziamenti alle PMI, svolta in “concorrenza” con le altre società della rete. Ma su tutto prevale la gestione dei fondi per la comunicazione: dalla festa della Fiction, ai più svariati ed inutili convegni .
Il tentativo di semplificare e razionalizzare questo costosissimo e improduttivo conglomerato si è scontrato con la incapacità del policy maker di individuare una cabina di regia capace di superare la logica assessorile che tende ad individuare nelle aziende e negli enti, veicoli attraverso cui gestire gli affari eludendo le procedure amministrative.
La debolezza della direzione programmazione economica dell’assessorato al bilancio, incapace di attivare una regia coerente delle azioni di investimento regionale (in particolare dei fondi comunitari, che rappresentano la principale fonte di finanziamento), l’approccio incrementale fondato sulla distribuzione a pioggia sul territorio delle risorse disponibili perseguito dagli assessorati (e delle relative strutture amministrative) maggiormente coinvolti nella attuazione della politica industriale (piccole e medie imprese e sviluppo economico, innovazione e turismo), le oscillazioni della Presidenza, incapace di imporre una visione unitaria, e il sostanziale disinteresse (e incomprensione) dell’assessorato al bilancio hanno favorito il mantenimento dello status quo.
La iniziale dialettica tra l’assessore allo sviluppo economico Raffaele Ranucci (favorito dalla Presidenza) e l’assessore al Bilancio (che tradizionalmente svolgeva questo ruolo) su chi dovesse fornire alla holding l’indirizzo politico è rimasta irrisolta. L’assetto di Sviluppo Lazio è stato sciolto con soluzioni di basso profilo: la Presidenza a Giancarlo Elia Valori non ha rappresentato certo un elemento di innovazione (tra le sue numerose cariche si ricorda l’iscrizione alla P2 di Licio Gelli, tessera 283) e per la direzione generale è stato scelto un manager di basso profilo, scarsa fantasia e attenzione ragionieristica all’equilibrio “politico”.
L’indeterminatezza del quadro delle società regionali è pienamente funzionale al ruolo che il policy maker, purtroppo bipartisan (salvo rare eccezioni), associa primariamente a queste strutture: serbatoio di assunzioni clientelari e “marchette”. Come documentano Salvi e Villone nel loro citato libro l’elusione delle procedure amministrative che l’involucro societario rende possibili sono infinite. Assunzioni senza concorso, progetti assegnati in modo fittizio, “gare” sotto la soglia europea la cui costruzione parte dal vincitore e così via. Fare le stesse operazioni utilizzando le normali procedure amministrative risulta molto più complesso, per la struttura degli atti ed il profilo di responsabilità del dirigente pubblico. Nelle aziende tutto può essere più facile, soprattutto se governate da opachi ragionieri delle “marchette”.
Un solo esempio (se ne potrebbero fare molti), relativo a Sviluppo Lazio, è emblematico. SL ha 140 dipendenti (e altrettanti consulenti) e, tra il 2008 e il 2009 sono state contrattualizzate, chi in forma di collaboratore chi in forma di dipendente, circa 40 persone (pari al 15 per cento della forza lavoro), provenienti dalla provincia di Frosinone e strettamente correlati alle attività dell’ex assessore alle PMI Francesco De Angelis (ora parlamentare europeo). In particolare la distribuzione è la seguente: 2 da Alatri; 1 da Anagni; 1 da Atina; 1 da Boville; 4 da Cassino; 2 da Castelliri; 3 da Ceprano; 10 da Frosinone; 3 da Isola del Liri; 4 da Ripi (comune di 1.000 abitanti che ha dato i natali all’assessore); 2 da Giuliano di Roma; 1 da Patrica; 1 da san Giorgio Liri. Si omettono i nomi per il rispetto della privacy.
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