Genova, 8 dicembre 1746. Da 3 giorni la città era in rivolta, due giorni dopo le truppe d’occupazione austriache si sarebbero ritirate. I genovesi, tenaci, ribelli, brontoloni e devoti, non rinunciarono alla processione per l’Immacolata. Non mi risulta che per il giorno 8 dicembre 2018 sia prevista alcuna processione a Genova. Solo una giornata (senza rinunciare al pisolino) di celebrazioni e Messe nella basilica dell’Immacolata, in via Assarotti.
Ma tornare con la mente a quelle giornate così in apparenza lontane, può essere educativo non solo per il sindaco Marco Bucci e il presidente della Regione Giovanni Toti ma soprattutto per Beppe Grillo e i suoi seguaci, che hanno illuso i genovesi mietendo un terzo dei suffragi alle elezioni di marzo 2018 e poi li hanno abbandonati al loro gramo destino (specialmente proprio quelli che abitavano sotto il viadotto crollato, che li avevano votati in massa) in obbedienza alla loro demenziale ideologia carica di odio e di ignoranza.
I genovesi sono gente paziente, lavorano con parsimonia, come è giusto che sia per il marinaio che deve conservare energie di riserva per l’improvvisa burrasca e come è naturale per la gente dei porti, primi sfruttatori dei marinai. Ma sono disciplinati, tirano dritto, mugugnano e non pregano e nemmeno bestemmiano. In genovese non ci sono bestemmie, chi va per mare non può permetterselo di sfottere quelli lassù.
Ma quando la pressione supera il punto di rottura, non li tiene più nessuno. Pensate alla Resistenza, pensate al 30 giugno del 1960, pensate soprattutto a quel 5 ottobre 1966 quando un gruppo di operai, portuali, disoccupati, precari trasformò una manifestazione sindacale in uno dei primi episodi di guerriglia urbana del dopoguerra. Non c’era il Pci a organizzarli (come era stato invece nel ’60) fu un movimento di disperati, temevano i riflessi sulla occupazione del trasferimento a Trieste della Italcantieri. Il Pci all’inizio li condannò, definendoli ‘facinorosi’ e ‘filocinesi’, poi mandò a difenderli il più bravo dei suoi avvocati, dando l’avvio a un periodo di ambiguità (“compagni che sbagliano”)e incertezza che si intersecò più volte con il rapporto col terrorismo. Fino a Guido Rossa.
La rivolta del ’66 aveva alcune caratteristiche simili a quella del 1746: fu un moto di popolo, spontaneo, imprevisto, violento, ingovernabile.
Quella del 1746 fu “una processione di guerra”, riferiscono le cronache del tempo. E di popolo. Il doge e i nobili non vi parteciparono. I popolani sfilarono con il fucile in spalla, anche i preti e i frati erano armati, pronti a reagire di fronte a un contrattacco austriaco. Le campane di tutte le chiese suonavano a martello.
Ho trovato questo ricordo in un vecchio libro su Balilla, il mitico ragazzo genovese che la tradizione vuole fosse l’iniziatore della sassaiola contro una pattuglia di austriaci che cercava di estrarre dal fango della strada un cannone. La data di questa intifada italiana è quella del 5 dicembre 1746. La rivolta si diffuse nella città, gli austriaci, dopo 5 giorni di lotta senza quartiere, dura e spietata da parte degli oppressori, se ne dovettero andare. Non sembrano esistere prove documentali della identità e dell’esistenza di Giovanni Battista Perasso, Balilla, palletta, piccolo ragazzo o ragazzino. Il padre faceva il vinaio, angariato dalla burocrazia, ieri come oggi scema e feroce. Era sceso a Genova da un paese pochi chilometri sopra nell’Appennino, in val Bisagno. Balilla faceva l’apprendista da un tintore.
Non fu certamente questo ragazzo di 17 anni, coraggioso e un po’ matto, la mente della rivolta. A tenere le redini c’erano adulti capaci con la testa sul collo, che seppero prendere in mano l’organizzazione del moto, tenere testa alle truppe in divisa bianca e anche alla debolezza e al disfattismo dei nobili.
Ma nella memoria genovese Balilla è una creatura ancor viva, assurta a figura emblematica della storia d’Italia nei versi dell’Inno Nazionale, l’Inno di Mameli:
“I bimbi d’Italia si chiaman Balilla”,
ha scritto a un certo punto Goffredo Mameli. Le parole scritte nel 1847, a soli 19 anni, da questo eroe del Risorgimento, morto a 21 anni sugli spalti della Repubblica Romana nel 1849, non sono più tanto di moda. Sarà perché di Balilla si appropriò Mussolini, con i suoi bambini in fez nero chiamati appunto Balilla e con la sua Opera Nazionale Balilla, welfare state de noantri.
C’è da notare che pochi versi sopra Balilla, Mameli scrisse anche:
Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano.
Anche l’appropriazione del Carroccio da parte di Umberto Bossi e della Lega ha colorato di provincialismo ruspante il trionfo lombardo contro Federico Barbarossa (non riuscì a liberarlo nemmeno quel film tv imposto da Bossi, intitolato, appunto, Barbarossa).
L’epurazione a ogni cambio di regime è nell’ordine delle cose, e la fine del fascismo fu più di un cambio di regime, fu una mutazione genetica.
E poi Balilla è nato un secolo e mezzo prima di Mussolini. È ingiusto farlo sprofondare nel fango come quel famoso cannone. D’altra parte non è forse vero che per più di mezzo secolo hanno bollato con disprezzo come “fascista” e quindi per ciò stesso pessima quella architettura razionalista che ha dato all’Italia gli ultimi (a parte Renzo Piano e pochissimi altri) esempi di costruzioni degne di confronto a livello internazionale.
Quando ero bambino, al centro della strada principale del rione di Portoria, dove tutto ebbe inizio nel 1746, c’era una losanga di marmo con la data della rivolta. Lì, proprio in quel punto, Balilla chiese ai suoi compagni: “Che l’inse?”, Comincio?. E tirò il primo sasso contro i soldati croati. Portoria oggi non c’è più. Ai tempi di Balilla era un rione popolare, una specie di Trastevere, alle spalle del palazzo Ducale, non c’era selciato né pavimentazione o marciapiedi, ecco perché il cannone “nel fango sprofondò” e i popolani genovesi, invece di aiutarli, li presero a sassate e si impadronirono del cannone. La lapide in mezzo alla strada non c’è più, le case povere di gente povera, con le vecchiette che cucivano alla finestra, sono state sostituite da palazzi anni ’60 più deprimenti che brutti. La statua è rimasta, un po’ defilata.
Tanto è cambiato in questi quasi 3 secoli. Non c’è più la fame e la miseria diffusa del passato, poveri ce ne sono e ce ne saranno sempre, ma non nella misura immaginata da quelli del Pd e del Movimento 5 stelle. Come ha detto un esponente del Pc portoghese, “poveri e emarginati ce ne saranno sempre, il nostro compito è fare che siano sempre di meno”. La differenza fra la pseudo sinistra italiana e la sinistra nel resto del mondo è che per gli altri si riduce la povertà facendo crescere complessivamente l’economia; da noi la si riduce impoverendo tutti, col il metodo Robin Hood, togliendo al vicino per dare al vicino. I grandi ricchi non si toccano, l’odio si appunta sempre su quello appena sopra di te. È la scena finale di Novecento di Bertolucci. Cade il fascismo, i padroni si allontanano sul loro bel calesse, i contadini inferociti infilzano il soprastante. Uccidono l’esecutore dei delitti mentre i mandanti fuggono.
Questo è il brodo di cultura in cui si è sviluppato il germe ideologico, se così lo si può definire, di Beppe Grillo.
Ora Grillo è stato messo un po’ in disparte, ha lasciato il passo a dei giovanotti e delle giovanotte, teleguidati da una spa milanese, la Casaleggio, cosa che nemmeno in Thailandia hanno accettato. Che ci sia un terzo degli italiani che vanno alle urne votando M5s è nella tradizione, da Mussolini e Hitler in giù. Il fatto che ci siano dei politici o giornalisti di sinistra, che gli vanno dietro, dimostra quanto sia giusto anteporre il prefisso “pseudo” alla parola sinistra quando ci si riferisce a costoro.
Che ci possa essere un nuovo Balilla non mi illudo, nemmeno fra i sedotti e abbandonati di via Fillak. Meno che mai in Italia. Per questo penso che l’Italia andrà sempre peggio: nel primo anno dell’era grillina, già siamo in recessione. Il prossimo anno, Anno II EG, sarà tutto il mondo a andare in crisi, essendo terminato un ciclo economico decennale. In America la disoccupazione è al 3,5%, sotto il valore fisiologico, infatti i salari salgono. In Italia il tasso di disoccupazione è quasi triplo. Chiedete un po’ a Monti come mai. E nel 2019…
Ma nel giorno di Balilla, e della Madonna, lasciatemi sognare.