Berlusconi a Trani: brutte figure per tutti

Daniel Ellsberg passò al New York Times i "Documenti del Pentagono" e finì, lui, in carcere. Poi è stato arrestato altre 29 volte. Qui è nel 1987

La procura di Trani si sta rivelando un autentico pozzo di San Patrizio per i giornali, con rivelazioni continue su cosa dicono al telefono nel cuore del potere italiano.

La situazione è molto intricata, perché da qualunque parte la si prenda, tutto gira storto. Vediamo con ordine. Punto di partenza sono le intercettazioni, su cui ci si aspetta una intensa battaglia e che hanno già messo in moto uno scontro senza precedenti fra poteri dello Stato, con uno spettacolo che disgusta i cittadini, da qualunque parte votino.

Difficile capire quale valore legale abbiano le intercettazioni, ma certo a leggerle ci si diverte parecchio. Ecco un assaggio:

Il passo più diverrtente e anche inquietante è lo scambio di battute, al telefono, tra Berlusconi e Giancarlo Innocenzi, uno dei commissari della Autorita delle Comunicazioni.

Berlusconi mette in guardia Innocenzi. Quando parlerà con Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità, sia prudente: “Stai attento a parlare al telefono col Presidente … perché voci, che non so se siano vere o meno, dicono che ha il telefono sotto controllo…”.

…e prosegue qui…..

Berlusconi. Si trova al centro di un’inchiesta di cui, stando a quel che si sa, non si capisce il senso, perché la concussione ci hanno spiegato essere una cosa precisa: vuoi una licenza per aprire un negozio e l’impiegato del comune ti chiede i soldi. In questo caso invece pare quando ti ferma un vigile e ti vuole dare la multa a tutti i costi e alla fine ci riesce.

Berlusconi comunque ne esce molto male, non per l’aspetto penale, anzi molti hanno già scritto che tutto finirà in una bolla di sapone. Ne esce male perché non ci si comporta così da presidente del Consiglio, soprattutto uno che da anni si dice vittima di una persecuzione giudiziaria, che secondo i giornali non è sicuro nemmeno al cento per cento dei suoi servizi segreti, che ha visto sui siti internet le foto del bagno di casa sua e la descrizione (non sollecitata?) delle sue prestazioni notturne, non parla al telefono come una liceale furiosa con una rivale in amore.

Berlusconi sembra Nixon, sì, Richard Nixon, presidente degli Usa, quello del film, che, dopo essersi messo da solo i microfoni nascosti nel suo ufficio alla Casa Bianca, per registrarsi per la Storia, si abbandonava a bestemmie e turpiloqui da scaricatore. Le auto intercettazioni uscirono e lui venne travolto e costretto, anche per quello, a dimettersi.

Senza leggere libri di storia, basta guardiate qualche telefilm per rendervi conto che non c’è stato e non c’è grand’uomo che non abbia dato di matto quando gli avversari lo attaccavano a fondo, frontalmente e personalmente. Ma fino a oggi tutto restava nelle segrete stanze, usciva anni dopo, secoli dopo: non c’erano i giornali, non c’era la tv, non c’erano i telefoni sotto controllo. Persino le intercettazioni dell’Ovra, ai tempi di Mussolini, sembrano giochi da oratorio: oggi c’è la tecnologia digitale, che permette di intercettare decine di migliaia di uente contemporaneamente.

Non si può godere del progresso e comportarsi come una volta. Anche perché una volta, quando Crispi bestemmiava con i suoi tirapiedi, non c’erano ancora tutti quegli apparecchi grazie ai quali Berlusconi è diventato miliardario. A quei tempi, probabilmente Berlusconi sarebbe finito al massimo a fare il pedagogo a casa Verri.

Il problema, come vorrebbero Berlusconi e anche tutti gli altri politici, di destra e di sinistra, non è eliminare le intercettazioni, è che i potenti devono stare accorti e parlare al telefono con il decoro e la dignità che il ruolo impone loro. Berlusconi al telefono non ordina una partita di cocaina: dice che non ne può più di essere attaccato. Non si può impedire a nessuno di lamentarsi, ma se è il presidente del Consiglio deve farlo in modo proprio. Deve anche pensare, chi è in quella posizione, che i suoi interlocutori, per quanto fedelissimi a prova di bomba,  a loro volta parlano, commentino e vadano nel pallone, sotto le sue pressanti chiamate.

Cosa potevano fare Innocenzi e Masi, di fronte alle sfuriate di Berlusconi? Mandarlo al diavolo? Lo fanno mai i direttori dei giornali quando ricevono le telefonate a volte deliranti dei loro padroni? Al massimo gli sparlano alle spalle: ma in quel telefonino, se venissero intercettati, verrebbe fuori che dicono quel che hanno detto Innocenzi e Masi, al massimo del riserbo taglierebbero corto come Gianni Letta.

Masi e Innocenzi hanno agitato la coda vantando di avere fatto l’impossibile: “L’ho detto a Calabrò”; “Abbiamo già tolto Ruffini”, millantando anche meriti non dovuti, perché Ruffini, Paolo, già direttore di Rai tre, risulta eliminato da quelli del suo partito, il Pd, nell’ambito di un accordo che al suo posto ha messo non la Brambilla o Feltri, ma un altro designato dal suo partito, Antonio Di Bella. L’operazione portò anche alla contestuale sostituzione di Di Bella alla direzione del TG3 con Bianca Berlinguer, figlia del defunto segretario del Pci. Poiché regista occulto dell’operazione (non intercettato, quindi sono ipotesi) sarebbe stato Massimo D’Alema, i casi sono due: o Masi è colpevole di millantato credito, o D’Alema è stato complice, cogliendo l’occasione anche per eliminare un ex democristiano, figlio di ministro e nipote di cardinale, con persona più vicina all’ortodossia, cioè il figlio di Franco Di Bella, che dovette lasciare la direzione del Corriere della Sera sull’onda dello scandalo P2.

Calabrò. Un cenno lo si deve anche a lui. Non deve essere facile tenere la sua posizione, le pressioni che deve avere subito e subire, dall’interno come dall’esterno della Autorità, devono essere fortissime. Non tutto quel che ha fatto l’Autorità brilla proprio in modo smagliante, ad esempio in materia di pubblicità televisiva. Nel caso delle trasmissioni sgradite, invece, ha retto bene e con decoro ed è giusto riconoscerlo.

Le  intercettazioni. Vedremo come va a finire l’inchiesta. Da quel che si capisce leggendo i giornali, siamo di fronte a un abile e accorto uso delle intercettazioni per renderle utilizzabili in modo legale o quasi, inserendole in un documento che prima o poi uscirà dalle stanze della Procura della Repubblica, in quanto atto di richiesta a un giudice terzo rispetto al pm.

Il risultato di tutto questo è dare mano forte al partito, quasi universale, che vuole il black out delle intercettazioni da parte della polizia giudiziaria, rendendo in questo l’Italia unica al mondo e prospettando la galera per quei giornalisti che comunque ne pubblicassero qualche estratto non gradito.

In questo sono tutti complici, anche se ora la sinistra finirà per fingere indignazione: intanto Berlusconi e i suoi dovrebbero avere comunque la maggioranza. Ma quando uscirono, su Repubblica, le intercettazioni di sue incaute telefonate, Piero Fassino, già segretario dei Ds, gridò alla “emergenza informazione” e c’è da giurare che se avesse avuto Beria (il capo della polizia segreta di Stalin) sotto mano avrebbe fatto portare alla Treblinka il suo ex amico Ezio Mauro.

Una generazione di politici di sinistra e di giornalisti in genere si è formata sul mito del Watergate (le porcate di Nixon e soci), oggi un po’ appannato dal fatto che non dovevi essere un grande giornalista per avere notizie che il numero due dell’Fbi ti portava a casa per vendicarsi dei suoi capi, e dei documenti del Pentagono, in cui si rivelavano le nefandezze americane in Vietnam.

I documenti del Pentagono, tanti che poi ne fu fatto un libro, vennero fotocopiati da due funzionari che li passarono al New York Times. Il New York Times li pubblicò e la magistratura americana li assolse. I due autori delle fotocopie, Daniel Ellsberg (vedi Oscar 2010 per il documentario “The most dangerous man”) e Anthony Russo, finirono in galera.

Da noi sta per succedere esattamente il contrario: ai politici preme di non finire sui giornali, ai giudici di non essere messi in discussione se non da se stessi, i giornalisti finiranno in carcere e i giornali chiusi per le multe, per avere fatto il loro dovere in un paese democratico.

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