L’Italia sprofonda, tra frane e alluvioni, mentre i partiti affondano nelle polemiche fra Di Maio e gli altri grillini, si lacerano sulla cittadinanza onoraria alla sen. Segre, si lacerano per un barcone affondato.
Fabio Fazio, post comunista milionario in calo di audience, invece di indignarsi per come è stata abbandonata la sua Savona, si crogiola intervistando l’inquisita Carola Rackete. In un’Italia in cui ti danno la multa se la tua macchina sosta sul tuo passo carrabile, regolarmente pagato, una signora che ha speronato una motovedetta della Guardia di Finanza e violato un ordine dello Stato italiano diventa eroe della tv pubblica.
La sinistra è genuflessa davanti a una ragazza di nome Greta, cui quelli di Stoccolma non hanno avuto il coraggio di conferire il Premio Nobel. Ma in fondo l’esaltazione di Greta Thunberg è liberatoria. Siamo sulla linea dell’altrismo: sono le industrie e le automobili a determinare il cambiamento climatico, ergo finché ci saranno fabbriche e automobili non possiamo farci niente, magari un bel corteo, qualche dibattito, qualche comparsata in tv.
Vi consiglio di leggere questo libro: Storia culturale del clima: Dall’Era glaciale al Riscaldamento globale, di Wolfgang Behringer, pubblicato da Bollati Boringhieri. Costa 11 euro e 90, su Kindle 8,99. Capirete che la situazione è molto più tragica, perché il mutamento climatico una costante della storia della Terra. C’era prima dell’uomo, anzi ne ha determinato l’evoluzione, il progresso e le crisi. Si tratta di un processo inesorabile, che non si fronteggia con i cortei e gli scioperi da scuola. Bisogna invece prevenirlo, contrastarlo, limitarne i danni. A quanto ne so io gli unici che ci hanno pensato sono gli olandesi, non da ieri ma dal 1959.
A Venezia ci hanno pensato, quasi 40 anni fa. Ma hanno litigato come nelle commedie di Goldoni, la tutela della fauna marina è apparsa prioritaria rispetto ai monumenti. Mentre litigavano, qualcuno s’è rubato un bel po’ di soldi. La cronaca di questi giorni racconta come è andata a finire con l’acqua alta che ha allagato la Basilica di San Marco.
Passerà tutto tra qualche settimana, ne possiamo essere certi. A Natale tornerà il bel tempo e fino al prossimo novembre non se ne parlerà più.
In compenso, riprenderanno i vari tormentoni, siamo di una creatività inesauribile.
È così da anni, forse da sempre. Il sempre è troppo lontano. Anche se non posso non domandarmi cosa sarebbe di Roma se il neonato Regno d’Italia non avesse sventrato qualche chilometro di lungo Tevere, costruito i muraglioni e dato vita, nel percorso, a una gigantesca speculazione immobiliare. Oggi non sarebbe più possibile: pensate a tutti gli enti interessati, i permessi e le autorizzazioni richiesti, le intercettazioni e gli arresti preventivi, gli ambientalisti, i comitati di quartiere, le marce per salvare le tane delle nutrie sulle sponde del fiume…
Il tutto nella totale incapacità di arrivare in fondo a qualsiasi cosa di buono. Anche i piemontesi che occuparono Roma ne 1870 rubarono alla grande. Ma con quei begli argini, le periodiche inondazioni (una delle quali valse la vita di Romolo e Remo) che affliggevano Roma dalla Creazione fino alla fine del Regno papalino, non sono più state una emergenza ricorrente. Il Tevere sale e scende. Ma se l’acqua esagera, il sistema delle chiuse permette di farlo straripare ben più a monte, senza incidenti.
Se mi concentro su un orizzonte di 53 anni, indietro fino al 1966, agli inizi della mia vita di cronista, posso riferire la mia esperienza diretta. E capirete che è meglio parlare di Salvini e Carola che non di cose serie perché non c’è speranza.
Dicono che siamo entrati nell’età della paura, quella che ha portato a Trump e a Brexit e porterà Salvini a Palazzo Chigi. La paura che ci domina non è solo quella irrazionale del diverso e dell’uomo nero. La paura che ci domina è fatta di varie componenti che non vanno sottovalutate e tanto meno irrise. Non puoi rispondere a questo turbine di paure proponendo lo jus culturae, cosa ben diversa dallo jus soli.
Lo jus soli è cosa sacrosanta, lo jus culture puzza di corsi organizzati dagli amici degli amici
Era novembre, anche allora. Novembre è il mese delle piogge in Italia. Vivevo a Genova. Andai con la macchina del mio primo stipendio al Salone dell’Auto a Torino. Non c’era ancora l’autostrada Torino-Piacenza né la Torino-Savona. Erano 200 kilometri di strade statali, un lungo giro via Vercelli e la Serravalle-Genova.
Guidando, mi guardavo attorno e vedevo acqua da tutte le particampi allagati, rallentamenti sulle strade. Quando arrivai a Genova, appresi che l’Arno era straripato (oggi si una quell’orribile “esondato” che sa tanto di burocrazia) a Firenze. Era il 4 novembre del 1966.
53 anni dopo, ha sentenziato Ilaria Ciuti su Repubblica, “per affrontare il pericolo alluvioni a Firenze, non è stato fatto praticamente niente”. Qualche intervento locale, precisa, io rischio è stato ridotto del 30%, uno 0,5% all’anno. Il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, è in guerra contro la povertà, queste sono bazzecole.
Nel 1970 sono stato testimone e anche un po’ vittima della alluvione di Genova. Era ottobre. Lavoravo all’Ansa, le nostre finestre si affacciavano sulla stazione ferroviaria di Brignole, che è perpendicolare al letto del torrente Bisagno. Da un sottopassaggio pedonale alla sinistra della stazione vidi sgorgare quell’acqua impetuosa e sporca che sommerse la grande piazza, teatro di scontri per un comizio di Almirante, dove avevo parcheggiato la mia amata Giulietta. Restai bloccato alla macchina da scrivere per 48 ore filate. Da Castelletto mia moglie e mia sorella scesero a portarmi rifornimenti. Persi l’amicizia di una famiglia di americani, turisti a Portofino. Non capivano che la città era tagliata in due, che non si poteva superare quel lago di fango e sterpaglie di cui trovai incrostato il mio bel motore Alfa Romeo.
Sono passati 50 anni, mezzo secolo, una vita. A Genova non è cambiato nulla. L’ultima volta che sono stato al cimitero di Staglieno dove sono sepolti i miei, che si estende sulla collina che sovrasta il Bisagno, passato il carcere e lo stadio, prima dello svincolo autostradale, ho avuto la sgradevole sensazione che il tempo si sia fermato. Il letto del torrente, allora quasi secco, era ingombro di detriti, da cui erano spuntati alberi e cespugli. Mi sono detto: un po’ d’acqua e siamo daccapo.
Leggo con sollievo che hanno appaltato, proprio in questi giorni di fine novembre, i lavori per uno scolmatore che dovrebbe scongiurare per sempre i rischi di straripamento. I lavori saranno terminati, si spera, nel 2023: da quella alluvione, che seguì altre più o meno fastidiosa avvenute nel quarto di secolo dalla fine della guerra, saranno passati quasi tre quarti di secolo, quasi quanto la aspettativa di vita media di un essere umano oggi.
Per gran parte di quei anni Genova è stata amministrata dalla sinistra. Pensate al Bisagno, pensate all’inconcludente dibattito su Genova città industriale o di servizi, all’impallinamento del Terzo Valico e della Gronda, di cui il crollo del ponte Morandi è figlio illegittimo e allora capirete perché Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, i cui camalli con un possente corteo e un po’ di scaramucce con la Celere (non quella che riparava le scarpe ma menava ai dimostranti in piazza) fecero cadere un Governo, oggi vota Lega, è guidata, in Comune e in Regione, da Giunte di destra.
Ma non è sui dolori e sugli errori della sinistra che voglio dilungarmi. È sulla nostra inesauribile capacità di auto illuderci, di cambiare prospettiva e sfuggire dai problemi veri che vorrei richiamare la vostra attenzione.
Quella povera tedesca che hanno messo a capo della Comunità Europea perché non facesse altri danni al Ministero della Guerra di Berlino, ha inventato una parola d’ordine per l’Europa, “Il green deal sarà la nostra strategia di crescita” che è la sintesi dell’assurdo. Ci aspetta un futuro di decrescita, schiacciati dalla guerra per ora solo verbale e commerciale, fra Usa e Cina, sommersi da una ondata migratoria su cui ora anche i greci ci danno lezione.
Ora sono tutti contenti, qualcuno ha buttato la palla in tribuna, possiamo continuare litigare per Di Bella o Orfeo.
Intanto il cambio del clima procede inesorabile, perché è l’asse terrestre che si sposta, che ci crediate o no. E nessuno fa nulla per attenuarne gli effetti. Non chiudendo le fabbriche, non fermando le auto. Ma pensando a spostare le città, a creare rifugi, a potenziare l’aria condizionata, la lista può essere infinita.