Ecco come un bicchiere di vino rosso può far tacere i vegani

Come un bicchiere di vino rosso mette fuori gioco i vegani
Per un piatto di lenticchie Esaù affamato vendette la primogenitura a Giacobbe. Ci volle perù un buon capretto arrosto per completare l’usurpazione

ROMA – Troppa scienza fa male, troppe ricerche confondono le idee e tolgono chiarezza alla vista, non quella degli occhi ma quella della mente e generano imprudenti polemiche come quella sul pericolo delle carni. Per essere sicuri di non escludere proprio nulla, gli scienziati della Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (Iarc) e della Organizzazione Mondiale della Sanità, non solo hanno messo nella lista degli alimenti cancerogeni gli insaccati e tutte le carni lavorate, ma anche carni che si consideravano “buone” per la salute come pollo, agnello e maiale.

La polemica si innesta su una tendenza in atto da tempo e in accelerazione, che favorisce diete senza carne, con vegetariani e vegani in testa alla crociata.
Le mode sono mode e le convinzioni altrui, quando non rechino danno a noi, dobbiamo rispettarle. Ci deve essere però consentito di esprimere una preferenza. Alla malinconia vegetariana, alla depressione vegana, preferiamo l’antidoto alla francese: un buon bicchiere (magari due) di vino rosso per contrastare l’effetto di carni rosse e grassi.
Per onestà si deve precisare che la prima entusiasmante scoperta, un quarto di secolo fa, da parte di una università americana del “paradosso francese” secondo cui più mangi grassi, più bevi vino rosso e meno rischi l’infarto (morte preferibile a quella per tumore) grazie al resveratrol, una sostanza chimica sviluppata dalla vite, venne un po’ gelata da un contraccolpo degli inglesi, secondo i quali i francesi avevano meno colesterolo nel sangue solo perché la dieta dei francesi era più povera di quelle inglese e americana. Diventati più ricchi, anche i francesi, a partire dagli anni ’70, non si sono fatti mancare nulla in termini di colesterolo e infarti.
A favore della tesi vegetariana c’è l’esempio degli indiani e degli orientali in genere, in larghe schiere vegetariani. Dalla mensa degli indiani la religione esclude la carne di mucca, ma c’è da dire che in nessuna parte del mondo la religione è stata ed è ancora oppio dei popoli come nel caso dell’India, strumento di vera e propria segregazione sociale. Povertà e religione hanno fatto sì che per qualche migliaio di anni gli indiani sottomessi dalle caste più alte di origine indoeuropea se ne siano stati prevalentemente buoni e zitti.
Anche la cucina ligure è povera di carne: le poche mucche servivano per il latte e le fonti di carne, in Piemonte, Lombardia e Emilia, erano a giorni di cammino in epoche senza frigoriferi. La vicinanza del mare permetteva però una integrazione alimentare con il pesce, largamente disponibile e a prezzi accessibili, anche per i più poveri.
Discorso molto diverso è quello delle tradizioni alimentari delle religioni di origine mediorientale: ebraismo, cristianesimo, islam. Per queste, i divieti alimentari hanno un senso. L’esclusione del maiale dalla dieta di ebrei e islamici sembra legata a ragioni sanitarie. La limitazione per i cristiani dei giorni di magro sembra in sintonia con le regole salutiste di oggi. Ebrei, cristiani e musulmani sono poi accomunati dalle regole del digiuno: in più occasioni per gli ebrei, prima della Pasqua la Quaresima dei cristiani, il Ramadan per i musulmani.
Mentre i cristiani mangiano la carne di maiale e i suoi lavorati (salame e prosciutto), islamici ed ebrei non possono, mentre vale per i cristiani l’obbligo di “astensione dalla carne” una volta alla settimana (non ho mai capito se vuol dire astensione dalla carne intesa come corpo e quindi rapporti sessuali oppure sia la carne in quanto proveniente da animali). In ogni caso l’obbligo per le vigilie e per il venerdì non esclude l’alternativa di mangiare pesce. Oggi nel mondo cristiano c’è poca osservanza delle prescrizioni alimentari religiose. In Quaresima si mangia a quattro palmenti, venerdì si mangia carne e si fa sesso. Ma in passato, almeno sotto il profilo alimentare, non era così.
Un macellaio romano , nel ‘700, fu condannato alla galera per avere venduto carne di venerdì. La galera di quel tempo era la nave galera, quella dove i galeotti stavano sempre incatenati al remo, giorno e notte, come bestie. Lo racconta lo scrittore francese dell’800 Stendhal che, per un certo equilibrio e per non apparire prevenuto nei confronti degli italiani, aggiunge come nello stesso periodo nel Sud della Francia un procuratore del regno chiedesse un’ammenda di 200 franchi e 15 giorni di prigione contro due viaggiatori rei di aver mangiato della carne un venerdì. La differenza tra le due condanne non è da poco, ma il clima è lo stesso.
Più edificante un altro episodio raccontato sempre da Stendhal. Scrive nel 1824 di avere assistito alla canonizzazione di un certo San Giuliano “elevato a questa dignità perché, entrato un giorno in una osteria, era di venerdì, vede delle allodole arrostite sul tavolo. Subito restituisce loro la vita. Esse prendono il volo attraverso la finestra”. Un moderno maligno penserebbe che il volo non fu verso il cielo ma in direzione della più prosaica borsa del futuro santo. Che forse vegetariano non era nemmeno lui.
Gestione cookie