Italia unita, 150 dopo: dobbiamo essere orgogliosi, se guardiamo da dove siamo partiti

La carica dei carabineri a Pastrengo, una delle poche vittorie dell'esercito sabaudo

Non si sente molto entusiasmo in giro per le celebrazioni deii 150 anni dell’Italia unita.

Abbiamo problemi più urgenti: le rate del mutuo, la macchina da cambiare, la moglie incinta, il marito che rischia il posto o va in pensione, il capo ufficio fetente, il colesterolo alle stelle, la borsa che ci delude, la crisi che non passa. Ognuno ha ben altro cui pensare che dare ascolto a quella che una volta si chiamava “retorica patriottarda”, anche se ne è portavoce lo stesso Presidente della Repubblica.

Dopo l’intervento dei carabinieri e la retata a Protezione civile e dintorni, anche la passione dei politici si è molto raffreddata.

La tendenza a seguire il pensiero dominante fa sì che nessuno si chieda e chieda cosa ci facesse l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi a capo di un comitato di festeggiamenti che sembrava più una succursale dell’associazione costruttori.

Si è persa così una occasione unica per cercare di capire meglio il processo che portò all’Italia unita, attraverso morti, guerre, eroismo e corruzione, per superare la retorica che ha da sempre impacchettato questi 150 anni, quale che fosse il regime del momento.

Ha deluso anche la Lega, l’unico partito che avrebbe potuto spingere per una ricerca senza pregiudizi. I capi della Lega, per strappare qualche applauso nei bar delle loro valli, hanno cavalcato la loro di retorica, aumentando la confusione.

Forse è meglio così vista la non brillante prova della prima grande avventura culturale della Lega, l’osannato film Barbarossa.

Vergognandoci giustamente delle tante cose che facciamo male, dovremmo però essere un po’ più orgogliosi della nostra storia patria e del percorso compiuto negli ultimi 150 anni, con una accelerazione nell’ultima tappa trentennale.

Certo, i nostri meriti, collettivi, regionali, individuali, sono limitati ed è bene esserne coscienti. Senza gli ameericani e il piano Marshall saremmo come la Romania. I friulani, che fino a pochi anni fa erano tra le primarie fonti dell’emigrazione, al pari ad esempio degli abruzzesi, sono oggi orgogliosamente benestanti anche se piuttosto che attribuire alla ricostruzione post terremoto l’’origine della età dell’oro, sarebbe forse giusto pensare alla  vicinanza alla Germania, che da duemila anni a questa parte è il fulcro della crescita economica del continente. Lo stesso si può dire del Piemonte, che ha compensato la decadenza della Fiat grazie alla ricerca di nuovi sbocchi al di là delle Alpi.

La Lombardia, poi, e Milano su tutti, fa parte dell’elite europea perché di quel sistema centrale europeo è la testa di ponte, lo sbocco commerciale in Italia. Non a caso Roma declinò e Milano divenne sede imperiale col crescere dell’importanza dei mercati transalpini.

Ma non possiamo dimenticare le sciagure che hanno afflitto l’Italia negli ultimi mille anni e che hanno reso più arduo il recente cammino.

Siamo stati colonia, in Lombardia e Veneto, giusto fino a poco prima della data che oggi celebriamo, degli spagnoli, poi degli austriaci. Il nord est è stato colonia fino a cent’anni fa e qualcuno ancora lo rimpiange, perché certo è meglio essere colonia degli asburgo che degli spagnoli o dei francesi, ma non c’è dubbio che è meglio avere come capitale Roma ladrona che Parigi napoleonica.

Da non dimenticare la presenza dello Stato pontificio in mezzo alla penisola, in grado di bloccare qualsiasi processo di unificazione, sempre pronto a chiamare re ed eserciti stranieri che hanno devastato l’Italia per difendere gli interessi territoriali della Chiesa, con un capo di Stato che era ed è anche capo di una organizzazione religiosa che gli dava un primato ideale sugli altri sovrani e che per questo ha reso vano ogni primo abbozzo di federalismo. (La Germania diventò stato unitario nei nostri stessi anni, ma il Kaiser, e per lui Bismark, fu più accorto di Vittorio Emanuele e della classe politica post cavouriana: fece uno stato federale, lasciò i re nelle loro corti, mantenne gli eserciti radicati nel territorio).

Abbiamo un territorio infelice. A scuola ci dicevano e forse dicono ancora che l’Italia è una specie di fortezza, cinta per tre lati dal mare e al nord dalle Alpi. Invece sono arrivati tutti, dai galli ai longobardi, dai tedeschi agli americani, da tutte le parti. Siamo dislocati su una penisola lunga e stretta, mentre Francia, Spagna e Germania sono figure belle tozze e compatte. I monti non ci proteggono ma ci dividono in quattro parti (isole escluse) di difficile interconnessione: pensate alle cavalcate di D’Artagnan nei boschi francesi e l’infelice viaggio di Ariosto attraverso l’Appennino.

Con tutti questi handicap, ce l’abbiamo fatta e dobbiamo esserne orgogliosi. Non per le ragioni della retorica: avremo avuto degli eroi, ma abbiamo avuto mediocri generali, abbiamo pagato dei prezzi di sangue salatissimi sull’altare di una classe militare sabauda che le ha sbagliate tutte, da Custoza a Caporetto, per non parlare del dopo. Il disprezzo di Rommel per gli ufficiali italiani è scritto col fuoco nelle sue memorie.

Non siamo un popolo unito, così come non lo sono nemmeno gli altri popoli, è che noi sappiamo poco dei rancori tra bavaresi e renani o del disprezzo dei berlinesi per tutti gli altri; dell’odio dei gallesi per gli inglesi; dell’antipatia dei provenzali per i bretoni.

Ma l’economia ci unisce, lo sviluppo di quella economia è stato un miracolo, su un percorso pieno di errori di mitologie, come fare automobili in Sicilia, ma qui siamo. Non di essere poveri ci lamentiamo. Siamo “nuovi poveri” perché ci mancano i soldi per fare tutto quel che vorremmo e che una volta solo i re potevano fare.

Se avrete la bontà di leggere la ricostruzione fatta da Blitzquotidiano delle magistrali, asciutte, distaccate, drammatiche pagine scritte da Luigi Luzzatto sulle miserabili condizioni di partenza dell’Italia unita, in assoluto e in relazione alle altre nazioni europee, forse condividerete questa sensazione: più l’orgoglio risorgimentale sprofonda nel crollo di tanti miti, più cresce l’orgoglio dell’italiano di oggi, a vedere dove siamo arrivati.

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