La morte di Boris Biancheri, esemplare servitore dello Stato

di Marco Benedetto
Pubblicato il 19 Luglio 2011 - 23:30 OLTRE 6 MESI FA

Boris Biancheri è morto e con lui è uscito un altro pezzo di quell’Italia di una volta, che sembra ormai destinata a estinguersi nel pozzo senza fine della  volgarità e della prepotenza. È morto con stile, con eleganza, con levità, con riserbo: come i sentimenti di un leader non sono cosa da social network, così anche il dolore non si deve mettere in piazza, ci vogliono decoro e compostezza.

Mentre approvava le bozze del suo ultimo libro, “Elogio del silenzio”, sapeva che la fine era imminente. Distribuiva le copie con dedica, quasi un filo destinato a legarlo al mondo oltre la morte, ma respingeva con dolce fermezza chi lo voleva salutare. Forse voleva che lo si ricordasse com’era fino a poco tempo fa, nel pieno delle forze.

È stato per tutta la sua vita nel servizio diplomatico, fino a coprire il posto di ambasciatore a Tokyo, Londra e Washington e poi quello di capo non politico del ministero degli Esteri. Era entrato negli anni ’50, quando ministro era Giuseppe Pella, altra pasta di ministro rispetto alle mutazioni berlusconiane.

Tra i suoi primi incarichi, raccontava Biancheri, ci fu quello di andare a Londra a controllare che fossero ancora al loro posto, all’ambasciata italiana, i dipinti di cui Mussolini aveva espropriato l’imprenditore biellese Riccardo Gualino prima di spedirlo al confino: vedessi mai che con la scusa della guerra gli inglesi se li siano fregati.

Poi la carriera, fino al rango di ambasciatore, e le sedi tra le più prestigiose per un diplomatico. Non doveva essere facile fare l’ambasciatore di un paese marginale come l’Italia, stretto fra i vasi di ferro delle superpotenze e dei paesi europei più grandi e ricchi di noi, handicappato da un apparato statale assai modesto e distratto.

Doveva essere ancor più difficile farlo nel degrado progressivo della diplomazia italiana, che vide anche ambasciatori finire in carcere per traffico di permessi e altre amenità. Ancora anni dopo, a sentire i loro nomi Biancheri si torceva dal dolore.

Chiuse la carriera con onore, negli anni in cui fu ministro degli Esteri Susanna Agnelli, che lo portò al vertice della diplomazia italiana.

Lasciò la carriera per diventare presidente dell’agenzia di stampa Ansa e fu una nomina contrastata perché si era messo di traverso Cesare Romiti, che da presidente della Fiat pretendeva di dettar legge anche nel mondo dei giornali ed era già riuscito a imporre il predecessore di Biancheri. La situazione fu sbloccata da una astuta mossa di Carlo Caracciolo, fondatore e presidente del Gruppo Espresso, che convinse Susanna Agnelli a schierarsi a favore dell’ex ambasciatore. Susanna Agnelli non aveva ruoli istituzionali nel mondo Fiat ma era la sorella amatissima di Gianni Agnelli. Quest’ultimo non si sarebbe mai sognato di urtarsi con Romiti per fare contento Caracciolo, ma davanti alla richiesta della sorella non poté che ingaggiarsi e storcere il braccio al prepotente Romiti.

La prova che diede come presidente di una società editrice fu eccellente, pur non avendo avuto altre esperienze di gestione. Ma i soci dell’Ansa sono tanti, il suo consiglio di amministrazione è un piccolo consiglio comunale e la consumata esperienza di Biancheri come mediatore ai tavoli della diplomazia fu in molte occasioni decisiva.

Fu quindi naturale che, quando Luca Montezemolo lasciò la presidenza della Fieg per quella della Confindustria, Biancheri fosse scelto come suo successore.

Anche come presidente degli editori Biancheri fu avvantaggiato dalle sue doti umane, oltre che professionali, dal suo senso della decenza  e del decoro, dal suo autocontrollo: nel mio ricordo lo perse solo pochissime volte, esasperato dalla petulanza molesta di giovani rampolli che alla fine gliela fecero pagare, anche per la faciloneria e la debolezza di alcuni editori.

Uscì con stile, non tradì alcuna amarezza né sorpresa per come fu trattato, senza un grazie, senza un minimo di eleganza. Sapeva che questo è il mondo, che gratitudine e eleganza non sono doti dei padroni, dei potenti e dei prepotenti. Si impegnò nell’ultima battaglia, che vinse: salvare la storica sede dell’Ispi, di cui era diventato presidente quando lasciò il ministero, in un bellissimo palazzo del centro di Milano decorato dal Tiepolo, che qualcuno voleva occupare con un archivio del fisco.

Scrisse anche dei libri, con un certo successo, per un editore, Feltrinelli, lontano da giornali e riviste.