Alcune osservazioni sulle nomine Rai, a caldo.
1. Tutti si indignano, inutilmente. La Rai è per sua natura lottizzata, e questo non si deve giudicare un aspetto negativo, ma un valore democratico. La Rai è una macchina di diffusione di informazioni e idee in una posizione di semi monopolio, strutturata come un’azienda, ma per la quale, data la rilevante natura politica del suo ruolo, la sua rispondenza alle esigenze della democrazia vale di più della sua funzionalità al prioritario obiettivo aziendale di generare profitti. Non è quindi uno scandalo che i partiti, secondo il peso in Parlamento, abbiano l’effettivo potere di nomina di capi e sottocapi a tutti i livelli, fino all’ultimo redattore. Anzi è un fatto positivo, perché in questo modo i partiti, che sono lo strumento primario e prioritario della partecipazione dei cittadini alla vita politica, e le idee che i partiti esprimono, hanno accesso alle onde radio e tv.
Il problema è piuttosto quello del controllo dell’altro semimonopolio, che è in mano a un privato. Il fatto che poi quel privato sia anche capo del Governo e quindi eserciti un’influenza dominante sulla Rai, in quanto rappresentante pro tempore dell’azionista Stato, come dimostra la vicenda che stiamo commentando, è solo un’aggravante del problema. Il fatto è che tra Rai e Mediaset controllano il 90% o giù di lì dell’audience e delle risorse pubblicitarie e non c’è barba di antitrust che senta il prurito di occuparsene. Ma forse questo è il tema che la sinistra avrebbe dovuto affrontare, quando lo poteva fare (e ahinoi nessun sa dire quando lo sarà di novo): non tanto quello di espropriare Berlusconi della sua azienda, quanto quella di imporre all’altro semimonopolio regole di governance democratica analoghe a quelle della Rai.
Quelli che se la prendono con la partitocrazia nella Rai, che modello hanno da proporre in alternativa? La meritocrazia per concorso per titoli, punti e esami? Da come funziona lo Stato italiano, che su un tale meccanismo si dovrebbe basare, non c’è da esserne troppo entusiasti. La Rai in mano ai privati? Ma forse i privati sono le vestali del sacro fuoco del merito? Decenni di vita in questo mondo dell’informazione coronati dalle più recenti esperienze dirette e solo osservate portano a concludere il contrario.
Le scelte dei vertici sono condizionate nel migliore dei casi da affinità ideologiche con la proprietà, nella peggiore dalla volontà di compiacere poteri superiori; comunque i criteri non sono mai neutri. La differenza tra il pubblico e il privato è che, per i ruoli sottostanti, nel pubblico scelgono gli azionisti (secondo la giusta quanto vilipesa definizione di Bruno Vespa), nel privato i capi e capetti della più o meno lunga catena di comando, sempre secondo criteri di affinità ideologica, culturale, politica o amicale.
2. Da un po’ di giorni tutti si affannano a dire e indignarsi. Il presidente della commissione parlamentare di vigilanza Rai Sergio Zavoli, un mito per i giornalisti italiani, indimenticabile e ineguagliabile, per chi ha dall’età il privilegio di averlo potuto ascoltare, cantore del Giro d’Italia dell’epoca d’oro di Coppi e Bartali, è più che intrinseco alla Rai. Vien da dire che forse c’era Zavoli prima della Rai e certo alla schiera dei giornalisti Rai è intrinseco. Ha alzato la voce non per dire che Augusto Minzolini sia inadatto a dirigere il Tg1, ma semplicemente per dire che forse dentro la Rai c’era tanta gente altrettanto capace. Discorso più da sindacalista che da vigilante sul corretto funzionamento dell’ente.
3. In realtà quello che si deve sottolineare su come sono andate le nomine è che Silvio Berlusconi ha vinto un’altra volta. Mentre tutti strillano, Lui ha portato a casa quello che voleva: ha piazzato Minzolini, del quale ha piena fiducia, al Tg1 e ha bloccato ogni ambizione di Mauro Mazza, che gli ex An volevano al Tg1, facendolo nominare direttore della Rete 1: un premio di consolazione su cui tutti metteremmo la firma. Per il resto si vedrà dopo le elezioni.
Anche se An e Forza Italia sono confluiti nell’unico partito Pdl, gli uomini dei due ex partiti conservano, come naturale, culture e affinità politiche e ideologiche derivanti dai partiti di provenienza. E mentre l’ex Forza Italia è Berlusconi, l’ex An conserva una sua compattezza e una conseguente autonomia culturale rispetto al Capo, che non è rappresentata solo dalle più o meno comprensibili uscite di Gianfranco Fini, il loro ex leader, ma anche da quell’intreccio di amicizie, lealtà e interessi dei suoi ex colonnelli. A questi è vicino Mazza e Mazza questi volevano al Tg1.
Per questa stessa ragione, e nessuno può dargli torto, Berlusconi non ce lo voleva. Da qui il blitz di mercoledì pomeriggio. Lo stallo sulle nomine a Tg e Rete 2 ne è una conseguenza: gli uomini ex An non gradivano la nomina a direttore di Raidue di Susanna Petruni, una giornalista che, a quanto pare, ha come merito principale quello di seguire Berlusconi nelle sue trasferte; e alla fine non gradivano nemmeno più tanto la nomina a direttore del Tg1 di Mario Orfeo, direttore del Mattino di Napoli e ottimo giornalista di carta stampata di grande scuola: poiché non è la capacità in discussione, ma la lealtà, non è un discorso che vada tanto giù agli ex camerati quello che gli fa Berlusconi: di cosa vi lamentate? Orfeo è vostro, il fatto che lo voglia io non cambia le cose.
Invece, a quanto pare, per gli ex uomini di An le cose cambiavano e così tutto è stato rinviato a dopo le elezioni. Che sia loro convenuto lo si saprà solo il 7 giugno. Il rischio è che se Berlusconi esce rafforzato dal confronto elettorale, butterà sulla bilancia della Rai la sua spada di Brenno e magari non ci sarà più il posto nemmeno per Orfeo.
Lo stesso rischio corre la sinistra, in particolare il Pd. Per consuetudine ormai consolidata, alla maggioranza vanno due Tg e Reti, all’opposizione ne va una, con il numero 3 da tempo sempre alla sinistra, così come il numero 2 alla destra, e con Tg e Rete 1 che si spostano secondo la lancetta del voto.
Secondo la prassi, quindi, in questo giro di nomine il Pd avrebbe dovuto confermare o cambiare i direttori dei due feudi di sia pertinenza e tutti davano per decisa la conferma di Paolo Ruffini alla terza rete e l’esordio alla direzione del Tg3 di Bianca Berlinguer, figlia dello scomparso segretario del Pci dei tempi dell’eurocomunismo. Però poi qualcosa si è inceppato e Dario Franceschini ha smentito l’assenso dato da Massimo D’Alema al pacchettino delle nomine di sinistra. A quel che si è potuto leggere, Franceschini trova sbagliato procedere alle nomine in Rai prima delle elezioni. Potrebbe avere ragione, se fosse sicuro di un balzo in avanti del suo partito il 7 giugno.
Ma da tutte le avvisaglie che si sono potute percepire negli ultimi mesi, quello di Franceschini può rivelarsi un calcolo sbagliato. Le avvisaglie sono che Berlusconi sembra avviato su un piano inclinato che ha come punto di arrivo i ritratti di Napoleone e Giulio Cesare. Lo si è capito dai suoi attacchi, anche recenti, ai giornali e ai magistrati, lo si è capito dalla sua dichiarata ambizione di arrivare al 51% dei suffragi: un numero magico per un imprenditore del suo calibro, perché quel numero vuol dire che con appena una piccola frazione sopra la metà del capitale uno può farla da padrone in un’azienda.
Estendendo la logica del 50,1% alla politica, Berlusconi è pronto a fare il padrone anche lì. E a questo punto c’è solo da confidare nel suo buon cuore e nella sua cvolontà di rispettare la prassi politica italiana. E se invece decidesse di far saltare il tavolo e mettere ad esempio a dirigere il Tg3 una persona, magari di sinistra, ma non indicata dalla segreteria del Pd? Sarebbe semplicemente la ripetizione di quel che vuole fare col Tg2, quindi non è fantapolitica, ma probabilità. E sarebbe per il Pd una ulteriore sconfitta.
I commenti sono chiusi.