Salva Sallusti: da Chiti e Gasparri il vero bavaglio per la stampa italiana

Con il pretesto di “Salvare Sallusti”, il direttore del Giornale dei Berlusconi condannato al carcere per un articolo coperto da pseudonimo in cui si invocava la morte per un giudice accusato di cosa mai fatta, i politici stanno introducendo nella nostra legge un vero e proprio bavaglio sull’informazione più o meno libera in Italia.

La legge bavaglio, nella vulgata giornalistica, è il tentativo di disciplinare la pubblicazione delle intercettazioni e degli atti istruttori in generale, che in Italia è diventata strumento di lotta politica e che in altri Paesi porterebbe un bel po’ di gente in galera, perché rende impossibile la celebrazione di un giusto processo, cosa che da noi appare come l’ultima delle preoccupazioni fin da quando torturavano il reo perché, confessando, dopo essere stato impiccato o decapitato o squartato, potesse accedere direttamente al paradiso.

La legge bavaglio fu al centro di una grande mobilitazione in tutti i ranghi del giornalismo militante fino alla caduta di Berlusconi. Oggi la legge, pur ancora al centro degli obiettivi del Governo Monti, non appassiona quasi più nessuno e prima o poi passerà.

Ma il blocco delle intercettazioni sui giornali, che può comunque mettere al riparo i politici dalla sorpresa di leggere sui giornali e in internet le loro incaute per quanto non punibili esclamazioni, non basta ai nuovi “padroni del vapore”, i politici di cui Francesco Fiorito è solo l’esemplare più volgare e folcloristico ma anche emblematico per quanto attiene all’arroganza.

Loro vogliono in silenzio totale e ci provano con la firma di due politici tra i migliori in materia di libertà di stampa. Vannino Chiti,    del Pd e Maurizio Gasparri, del Pdl, sono stati negli anni tra i parlamentari più vicini, e non solo a parole, ai giornali e ai giornalisti sui temi di libertà.

Però ora sembra che qualcosa gli sia sfuggita di mano. Certo, con la Chiti – Gasparri viene escluso il carcere per articoli di giornale giudicati diffamatori dai Tribunali, ma non per bontà, anche se viene risparmiata a Sallusti l’aureola del martirio: tutti sanno che in 60 anni di Repubblica in carcere ci andati solo Giovanni Guareschi, quello di Don Camillo (che però era di destra e quindi conta la metà) e pochi altri, ma mai giornalisti di testate importanti. Eugenio Scalfari, prima di entrare in carcere per avere rivelato un tentativo di colpo di Stato da parte di servizi segreti, carabinieri e politici moderati, venne sollevato in parlamento dall’angelo Bettino Craxi del Psi.

Immediata è stata la reazione infastidita dei cittadini alla legge pro Sallusti. Ha scritto un peraltro anonimo lettore di Blitzquotidiano: “Anche l’oltraggio a pubblico ufficiale deve essere depenalizzato, perchè mai uno che insulto un poliziotto per strada deve finire in carcere, mentre chi insulta un altro pubblico ufficiale tramite giornale diffuso in tutto il mondo può continuare a fare la vita di sempre? Solite leggi ad personam”.

Queste parole fanno eco a un sondaggio tra i lettori di Blitzquotidiano, dei quali due su tre ritengono giusta la condanna a Sallusti.

Poi ci sono da registrare anche le critiche dal punto di vista giuridico, come scrivono Antonio Buttazzo, avvocato, e Giuseppe Giulietti, su Blitzquotidiano.

Ma ai politici importa poco dei cittadini normali, quelli che non scrivono sui giornali ma hanno a che fare con le tensioni quotidiane del rapporto con i dipendenti pubblici. Per questo, alla luce dei deludenti precedenti di cui sopra, ai politici è venuta l’idea vincente: visto che alla fine la condanna al carcere passa sulla pelle dei giornalisti come l’acqua tiepida di una doccia estiva, tocchiamoli nel portafoglio. I giornalisti di solito non pagano, perché paga, “in solido” l’editore. Ma se l’editore si fa due righe di conto e accantona a bilancio almeno una parte dei potenziali rischi non ci sarà più giornale in Italia che, crisi o non crisi, possa chiudere in attivo.

Infatti con la Chiti – Gasparri viene introdotta, a carico dei colpevoli, una multa minima, si dice minima, di 5 mila euro, senza tetto (anche se altra legge dice: non più di 50 mila). Ma la cosa più grave è che viene fissato un valore minimo al “risarcimento del danno” patito da chi è stato giudicato diffamato: 30 mila euro. Se si tiene conto che un grande quotidiano in Italia ha pendenti intorno a 500 processi per diffamazione, lo scherzo porta a un potenziale di 15 milioni di euro di soli danni, cui si aggiunge la multa, che fa da un minimo di 2 milioni e mezzo a un massimo di 25 milioni.

A questo punto cosa farà un editore con prospettiva di fallimento? Piazzerà un suo uomo di fiducia nella stanza del capo redattore e gli farà leggere tutti i testi e decidere quali si possano pubblicare o no.

Stiamo parlando di grandi quotidiani, che hanno le spalle non larghe ma larghissime. Ma le testate, su carta, on line, via etere, sono migliaia, molte piccole, piccolissime: può diventare pulizia etnica.

Che questo rischi di essere il risultato della Chiti – Gasparri lo dice la nuova norma che viene introdotta con l’art. 2 quotidiano, dove si mettono assieme non solo quotidiani e periodici, come in passato, ma si parla anche di “testata giornalistica, radiofonica o televisiva”, dove chiaramente testata giornalistica, senza dirlo esplicitamente, vuole dire internet.

Dopo anni di resistenza a oltranza da parte di, purtroppo sempre più rari, sostenitori della libertà di informazione come Beppe Giulietti, la difesa dei siti internet dalla scure delle querele sembra franare sotto il colpo di maglio della Salva Sallusti.

L’Italia è una nazione dalla querela facile e i politici hanno scoperto che si tratta anche di un potente strumento di intimidazione e di certo lo diventerà ancora di più. La maggior parte dei casi di diffamazione non è costituita da casi Sallusti – Dreyfus, ma da giudizi più o meno arditi, da aggettivi più o meno estremi, da fatti spesso al confine e spesso appresi da fonti ufficiali pur in condizioni di anonimato.

I politici sparano querele come raffiche, a volte lo dicono solo per i giornali, ma l’effetto è in ogni caso paralizzante.

C’è anche la strada della causa civile, che non è alternativa a quella penale, che è stata negli ultimi anni perseguita dai potentati politici e economici proprio per  l’effetto intimidatorio dei risarcimenti richiesti: quando ti chiedono un milione, dieci milioni di danni, la prossima volta che scrivi ci stai più attento.

Ma i tribunali hanno sempre ridicolizzato queste pretese, sia nella sostanza, respingendole in toto, sia nella quantità, poche migliaia di euro o milioni di lire. Unica eccezione: quando il diffamato è un giudice, non importa la corrente. Ma in questo caso uno ci sta attento e non ne parla, c’è tanto di cui scrivere, comunque.

Ecco perché ora vogliono introdurre il valore minimo del risarcimento in sede penale: per fare tornare appetibile questo tipo di causa e rendere in un colpo solo deterrente per i giornalisti e interessante per i politici la querela.

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