TORINO – Il miglior alleato di Sergio Marchionne ? In Italia certamente Maurizio Landini. Si, proprio lui. Il gran capo della Fiom. Quello pronto a bloccare ogni passo del manager del Lingotto fino a rappresentare il maggiore ostacolo sul suo cammino verso una fabbrica moderna, flessibile, reattiva, competitiva sul piano dei costi e della produttività. Pronto a minare alla base la solidità di quella “Fabbrica Italia” che sembrava destinata a riallacciare quei rapporti tra la Fiat e l’Italia che sembravano ormai compromessi.
Ma allora che senso ha parlare di alleAnza tra due persone che sembrano nate per farsi guerra ad oltranza. Il dubbio è che ci si sia confusi con l’omologo a stelle e strisce di Maurizio Landini, quel Bob King verso il quale Marchionne non ha mai lesinato apprezzamenti. A capo della United Auto Workers sempre al fianco del nuovo capo della Chrysler, comprensiva e riconoscente degli sforzi di quel manager impegnato nella trasformazione dell’incubo del fallimento nel sogno deLla rinascita. Ma le cose non stanno proprio così.
Perché si è capito fino dall’inizio che la scalata a Chrysler non avrebbe potuto dare vita ad una vera e propria alleanza all’interno della quale le due società potessero convivere d’amore d’accordo, integrando le proprie diversità e le diverse vocazioni commerciali. E d’altra parte il fallimento dell’accordo tra la casa americana e la Daimler era fallito proprio per essersi illusi che questo fosse un obiettivo davvero perseguibile. E alla fine, quando ci si era accorti della utopia che era alla base del progetto era ormai troppo tardi e il tentativo dei tedeschi di ridurre la Chrysler in schiavitù si trasformò ben presto in un bagno di sangue finanziario per colpa di costosi modelli Mercedes venduti al prezzo di una economica Chrysler.
Sergio Marchionne, al contrario, non ha avuto esitazioni. L’obiettivo era chiaro fino dall’inizio: non c’era spazio per Fiat e Chrysler ed era la Fiat quella che avrebbe dovuto cedere il passo. Certo il marchio sarebbe rimasto ed anche certi apporti progettuali e produttivi ma solo in subordine alla marca americana. Un processo al quale Maurizio Landini ha dato uno straordinario apporto sfoderando tutte le logore armi di un sindacato che considera le barricate come gli strumenti più avanzati della guerra tecnologica del terzo millennio.
E così grazie allo scontro continuo e continuamente alimentato da Marchionne nessuno si è accorto del progressivo depauperamento dei contenuti della vecchia Fiat. Sarebbe bastato che Landini alzasse gli occhi al di la delle barricate per vedere e denunciare la perdita verticale delle quote, la inconsistenza dei programmi di rinnovamento della gamma prodotto, annunciati solo per essere ripetutamente contraddetti.
Sarebbe basato che Landini abbandonasse solo per un attimo la lotta in difesa di diritti ormai non più condivisi neppure dagli operai, stremati da mesi ed anni di cassa integrazione, per denunciare la mancanza degli investimenti e di conseguenza l’assenza dei nuovi modelli. Sarebbe bastato che Landini mettesse da parte l’arma spuntata dello sciopero (ma che sciopero è quello che si rivolge a fabbriche già svuotate dalla cassa integrazione) per denunciare la eccentricità dei piani di sviluppo della Fiat rispetto a quelli dei principali concorrenti.
Ma così non è stato e così grazie (anche) a Landini ed all’appoggio di un esecutivo forse consapevole ma sempre pronto a cavalcare l’uomo del miracolo anche quello fasullo, Marchionne è potuto andare per la sua strada. Oggi Fabbrica Italia è ormai solo un miraggio e la Panda è andata a Pomigliano solo perché operai, più lungimiranti di Landini e certamente più colpiti di lui da anni di cassa integrazione, sballottati da programmi che, partiti dalla riqualificazione dello stabilimento in funzione della produzione di una ammiraglia Alfa, erano approdati all’ultima spiaggia dell’utilitaria, avevano votato si al contratto proposto dalla Fiat. magari senza neppure sospettare che così facendo rischiavano di fare un dispetto allo stesso Marchionne.
Ed è grazie a Landini se gli obiettivi di Mirafiori hanno potuto essere tenuti in sospeso e trasformati in una arma di scambio da spendere nella trattativa con il sindacato americano, destinata a chiudersi in queste ore. Perché sarà pur vero che la UAW si è dimostrata ben più collaborativa della Fiom ma è altrettanto vero che i sacrifici richiesti devono poi trasformarsi in benefici. Senza contare che alla Crhysler il sindacato è anche un azionista ed a lui Marchionne dovrà rivolgersi se vorrà entrare in possesso per intero del pacchetto azionario della Chrysler.
E siccome GM e Ford hanno firmato anche per un freno alla delocalizzazione delle produzioni ecco che a Mirafiori non si fa più il SUV da destinare in parte agli USA , che si farà in territorio americano, e si ripiega su una piccola vettura di segmento B. Un modello destinato a rimpiazzare la poco fortunata “16” realizzata su pianale Suzuki ed alla quale non si può dire abbia arriso un gran successo e che ben difficilmente potrà risolvere i problemi occupazionali di Mirafori.
La battaglia è persa e l’annunciato sciopero sarà solo una dichiarazione di sconfitta. L’uomo con il maglione ha avuto la meglio su quello con la felpa. Si perché in questi ultimi tempi anche Landini ha tentato la strada del look, magari sperando che gli portasse la stessa fortuna che ha portato al suo avversario. Una felpa con la scritta Fiom che ricorda da vicino quella ideata e indossata con orgoglio da Lapo Elkan e che, agli inizi degli anni 2000, aveva rappresentato il segno di una Fiat che, nonostante tutte le difficoltà, aveva rialzato la testa. Conscia della sua storia e dei suoi valori. Ma, purtroppo, non del suo futuro.