Meno male che Sergio c’è! C’è e si fa sentire. Dal suo eremo americano tuona contro la mancanza di leadership del presidente del Consiglio e denuncia la mancanza di interlocutori credibili ed affidabili in Italia. Marchionne si descrive come la vittima impotente di una sindrome di incomunicabilità degna di un film di Antonioni. Per l’uomo “che non deve chiedere mai” si tratta di una esternazione che suona come una richiesta di aiuto per un piano, quello di “Fabbrica Italia”, che sembra ormai prossimo ad essere accantonato. Evidentemente la rottamazione di Termini Imerese e la disertificazione di Mirafiori, non sono ancora sufficienti a rassicurarlo.
E così, di congelamento in congelamento, i fornitori dell’azienda torinese, almeno quelli che non hanno trovato alternative su altri mercati, non possono far altro che contare i giorni che li separano dal fallimento. E paradossale è un Governo che cerca di far passare la imbarazzante impotenza dimostrata in questi processi di deindustrializzazione selvaggia come una scelta consapevole volta a favorire la meritoria opera di Marchionne. Una strategia la cui efficacia è messa in dubbio dal mercato. Certamente quello europeo all’interno del quale la Fiat è poco più di una comparsa ma anche negli Stati Uniti dove i risultati di Chrysler sono messi in ombra da quelli della Ford che monetizza in fiducia del conumatore l’aver rinunciato ai finanziamenti statali, della GM che è ormai tornata ad utili antecrisi e del raggruppamento Kia Hiundai destinato a superare entro l’anno la marca italo-americana.
Si punta tutto sulla vettura a basso consumo: quella da 40 miglia per gallone, l’ideale per consumatori che, complice la crisi, potrebbero accentuare la propensione per vetture di cilindrata ridotta. Ma si tratterà più di onorare un capitolato del contratto con l’amministrazione americana che di una vera e propria arma commerciale. Questo tipo di vettura negli USA esiste già. E la producono GM, Ford, Toyota, Nissan, Kia, Hiundai e altri. Anche in questo caso, e lo dimostra la flebile accoglienza della “500”, non si tratterà di una tonificante corsa in discesa su un prato verde ma di farsi largo nella metropolitana all’ora di punta. Senza contare che l’unico modello della Chrysler stabilmente presente nella classifica delle dieci vetture più vendute negli Stati Uniti, il Dodge Ram, è un pick up dotato di un assetato motore otto cilindri.
Un tesoro che potrebbe essere messo a rischio in caso di accentuarsi della crisi. Così anche nel giro dei Marchionne Boys comincia a serpeggiare il dubbio. Che qualche volta emerge sulle pagine dei giornali, anche e soprattutto su quelli più vicini al Lingotto. Qualcuno osserva che nel consiglio di amministrazione la Fiat è in minoranza e quindi tutt’altro che libera nelle sue decisione e che non è previsto alcun trasferimento di fondi Chrysler alla Fiat. Il contrario invece è del tutto lecito. Ed infatti si è verificato con il trasferimento di oltre sette miliardi a ripagare il debito contratto con l’amministrazione americana al momento dell’accordo con la marca americana. Sono soldi che vengono in gran parte dal blocco degli investimenti per Fiat e quindi, in una certa misura, può essere considerato un finanziamento indiretto. E allora, puntuale, ecco la minaccia dell’abbandono.
Da quando Marchionne è alla Fiat, e ormai sono sette anni, in varie modi ed in differenti toni questi annunci si sono ripetuti più di una volta. Il calo in borsa che ha sempre seguito a queste esternazioni costituiva poi un segnale difficile da ignorare per i timorosi dissidenti. Questa volta forse Marchionne ha calcato un po’ troppo la mano, o forse non ha calcolato l’effetto moltiplicatore generato dall’attuale situazione economica mondiale, provocando crolli del titolo così disastrosi da mettere in discussione non solo la tattica di cui è maestro ma anche tutta la sua strategia.
Che può essere riassunta nella ferma illusione che sia possibile vincere le guerre rinunciando a combatterle. Il mercato europeo non tira? E allora si tagliano gli investimenti per i nuovi modelli. Le porte della Cina si sono ormai chiuse per l’affollamento generato da costruttori americani, tedeschi e coreani? Preoccupiamoci piuttosto del momento in cui cominceranno ad esportare sui nostri mercati. Con quali armi? Nuovi modelli, investimenti in ricerca e sviluppo?
Naturalmente no. Il problema è il costo del lavoro e la produttività. Che insieme incidono per meno del sei per cento sul costo del prodotto. E si continua a parlare di produttività soprattutto per dare addosso agli stabilimenti italiani. La cui produttività non può essere calcolata in modo attendibile a meno che non venga depurata dai giorni di cassa integrazione. Che non sono decisi dai lavoratori ma dal livello di gradimento del prodotto da parte dei consumatori.
Eppure, sarà pur banale per un manager la cui filosofia è ispirata a quella di Alice nel paese delle meraviglie, il successo di un costruttore non può che dipendere dal prodotto. Se davvero si potesse essere competitivi solo grazie all’integrazione che Marchionne benedice come un segno della provvidenza, tra Fiat e Chrysler allora Volkswagen, solo per fare un esempio, dovrebbe essere fallita ed il suo presidente, Ferdinand Piech, rinchiusto in un ospedale psichiatrico alla stregua di un don Verzè qualunque. Anche perché si tratta di una integrazione, almeno per ora, del tutto posticcia basata essenzialmente sul trasferimento, tal quale, di marchi da un modello all’altro.