Ecco come ho scoperto un lato di tua madre che non conoscevi, 80 anni dopo, mentre ero in coda per pagare una multa, una emozione rara e preziosa,
Mia madre, che ho perso da tanti e tanti anni e che la ferita è sempre lì, è improvvisamente comparsa davanti a me in un ricordo che pietrifica, poi commuove, poi diventa dolce proprio come la carezza materna che non scordi mai.
Sono in un ufficio pubblico di Genova, anonimo, un po’ confuso ma non troppo, per compiere un’azione burocratica banale, pagare una multa stradale. Un gesto di pochi minuti dopo una coda, la trafila del sistema, il numero che ti danno quando entri, il display dell’ufficio là in alto, sulla testa della folla in attesa, che chiama i numeri insieme a una voce anonima.
Ecco il mio, una sigla di tre lettere e due numeri, finisce per 09 e il numero dello sportello che lampeggia come chiamandomi: è l’8.
Mi districo per il labirinto dell’ufficio dove i corridoi conducono al tuo indirizzo, con quell’aria un po’ colpevole e un po’ seccata di chi va a versare il suo debito e un po’ si sente in difetto, un po’ vessato dalla pubblica finanza, che ti rinfaccia una inadempienza. La mano sul portafoglio pronta a estrarre il corrispettivo, lo sguardo sicuro di incrociare quello dell’impiegato e dell’impiegata sicuramente efficiente e rapida, ma raramente accogliente nello svolgere la pratica.
Invece mi trovo, davanti al numero 8, il sorriso deciso di una signora che mi guarda con interesse e allora una po’ vanagloriosamente penso che mi abbia riconosciuto per le mie attività giornalistiche, le frequenti comparsate in tv e penso che sarò trattato con maggiore attenzione di quella abituale per le aride pratiche. Manzitti? mi chiede allargando ancora di più il sorriso. Ricambio, ovviamente un po’ lusingato e non immaginando mai più che quel sorriso, quell’accoglienza inusuale per il luogo, dipendano da ragioni diverse dalla mia più o meno riconoscibile visibilità.
Mi avvicino con in mano la mia multa, ma la signora si alza in piedi e mi dice un nome che subito stento a decifrare: “Sonnino”. Capisco, che non è una presentazione, ma qualcosa di più da come quel sorriso continua e quasi si addolcisce. E non ho il tempo di riflettere, di individuare in quel cognome qualcosa che mi conduca a un riferimento preciso o semplicemente alla formalità della conoscenza tra il pagante e la cassiera di un ufficio pubblico.
Sonnino. Come un lampo si apre la mia memoria ancestrale, antica, qualcosa che sprofonda nella storia famigliare.
Quel nome ha un significato profondo. Sonnino, una famiglia ebrea che aveva ricevuto protezione nella casa di mia madre durante la guerra, quando erano state pubblicate le leggi razziali. In un recesso della memoria personale famigliare recupero quel particolare. Mia madre e sua sorella, ragazze coraggiose che sfidavano il pericolo, aprendo casa propria ai perseguitati della prima ora.
“Sono la figlia di Piera Sonnino”, dice la signora, con quel sorriso che non smette e che ora svela come una complicità, una radice comune, qualcosa che va indietro…. E che ora ci unisce tanti anni dopo, le nostre madri, ragazze in pericolo insieme, una che salvava l’altra da un pericolo imminente.
A quel punto, mentre scavo nella memoria, in una memoria che conservo, ma che mia madre, riservata, pudica, non alimentava, anzi quasi nascondeva in un silenzio che copriva quasi tutto di quegli anni così duri, la signora che mi sorride aggiunge. “Via Archimede……”.
E’ il nome della strada dove abitava la famiglia di mia madre e dove trovavano rifugio, davanti alle prime retate, gli ebrei già ricercati dai nazi fascisti.
“Via Archimede,……”, ripeto io come trasognato e annuendo al ricordo di quella casa, in quella strada un po’ anonima di Genova, a un passo dalla stazione Brignole, che da bambino frequentavo, quando andavo dai miei nonni. Sapevo, ma sapevo poco del fatto che era stato anche un rifugio segreto.
Mia madre non parlava mai di quegli episodi nei quali aveva rischiato così tanto, ma noi intuivamo che c’era qualcosa di importante, ma da tenere in silenzio.
Ero lì a fissare quella signora sorridente e un po’ complice in mezzo a una folla anche un po’ spazientita per l’intoppo nella coda. “Se non ci fosse stata sua madre e sua zia chissà se sarei qui”, leggo negli occhi di quella impiegata, che mi sembra un angelo della memoria.
Non so come muovermi tra la folla che preme dietro, il vetro divisorio davanti, vorrei abbracciare quell’impiegata, ma non posso fare altro che passare la mia mano sotto il vetro, stringere la sua.
Ora la poca memoria e la scoperta di una madre che è ricomparsa così improvvisamente in quell’ufficio quasi ottanta anni dopo i fatti mi travolgono un po’, mi commuovo. Ricordo tutto di quella Piera Sonnino, nascosta per un periodo in via Archimede, ma poi catturata con tutta la sua famiglia di sei fratelli e deportata ad Auschitz.
Sonnino. Chissà se mai mia madre aveva pronunciato davanti a noi quel cognome. Forse no.
Lo avevamo imparato tanti anni dopo, quando era uscito il libro “Questo è stato”, scritto da lei, unica superstite della famiglia, tutta sterminata dopo la diaspora, la separazione dei fratelli, una ragazza che aveva superato tutte le violenze, le brutture, il dolore di quel campo, un’altra Liliana Segre. E che dopo aveva avuto il coraggio di raccontare, di scrivere tutto.
Forse mia madre aveva saputo dopo che quella ragazza, protetta in casa, aveva poi subito tutto quello e non aveva voluto raccontare a noi piccoli un epilogo così drammatico. Piera si era salvata, ma gli altri erano tutti morti in quel campo di sterminio.
Questi pensieri mi passavano così rapidi in testa, mentre ero sempre lì nella coda con la mia multa che era passata dall’altra parte del divisorio e la signora sorridente svolgeva la pratica di annullarla. Scoprivo mia madre in un altro modo, in un luogo così inaspettato.
Avrei voluto passare dall’altra parte, abbracciare quella signora alla quale mi accomunava un destino lontano e in qualche modo decisivo. Ma come fare?
“Grazie, grazie!” riesco a dire, cedendo il passo allo spazientito cliente dello sportello che mi sta dietro. Esco dall’ufficio confuso, commosso, con l’immagine di mia madre davanti, giovane, fiera, coraggiosa, meno sconosciuta per me.
La immagino decisa, seria, determinata in quelle azioni di salvataggio che non conoscevo. C’è un gran sole fuori da quell’ufficio che è vicino al mare. Resto abbacinato, commosso, con gli occhi lucidi. Riconoscente, non so misurare neppure quanto.
Il giorno dopo non ce l’ho fatta. Senza multe da pagare sono tornato in quell’ufficio. Ho cercato quella signora, che era sempre allo sportello numero 8. Siamo risusciti a parlare, a scambiarci le nostre emozioni, a ricordare un po’ di più.
Ci siamo scambiati i telefoni, ci siamo impegnati a rivederci con i miei fratelli, con sua sorella. Tutti insieme, perché la memoria venga coltivata. Mia madre e sua madre davanti a un destino così terribile. Ragazze coraggiose e il loro esempio, lo sprone a non dimenticare. Mai.
I Sonnino erano una famiglia di antiche e profonde radici ebraiche, che viveva a Genova e sulla quale le leggi razziali del 1938 si abbattono come un fulmine, sconvolgendo la vita dei genitori già anziani e dei sei figli, tre fratelli e tre sorelle. La loro storia, da allora allo sterminio nei campi di concentramento, è stata appunto raccontata da Piera, unica superstite, nata nel 1922, che scrive un diario minuzioso, drammatico, preciso e delicato, sessanta pagine dattiloscritte, dieci anni dopo la fine dell’incubo, rimasto segreto fino agli anni Sessanta e infine pubblicato come una delle testimonianze più forti di quella tragedia. Con quel titolo così sobrio e definitivo: “ Questo è stato”.
Piera racconta la paura che cresce nella famiglia, i nascondigli affannosamente cercati, grazie a pochi amici fidati, per scampare alle retate del fascisti italiani e poi dei nazisti, a mano a mano che la rete si stringe intorno agli ebrei di Genova. E’ poco più di una ragazzina, quando si nasconde con tutta la famiglia in via Archimede, la casa di mia madre e diventerà una donna mentre tutta la tragedia si abbatte sui Sonnino.
Il 12 ottobre 1944 uno a uno i Sonnino vengono catturati a Genova, chi a casa, in via Montallegro, dove pensavano di avere trovato un rifugio sicuro, e chi addirittura per strada.
E’ l’ Apocalisse per questa famiglia che incomincia il viaggio della morte: la Casa dello Studente, il carcere di Marassi, i vagoni piombati, la lunga e tormentosa notte di Auschwitz e degli altri campi, dove i Sonnino muoiono separati uno dall’ altro. Soltanto Piera ce la fa.
Torna salva in Italia , viene curata, riesce a rifarsi una vita a Genova nel 1950, dove sposa Antonio Gaetano Parodi, giornalista dell’Unità di Genova, poi trasferito in Ungheria come corrispondente.
Ha due figlie, una, Maria Luisa è quella che ho conosciuto in quell’ufficio delle multe a Genova, ottanta anni dopo che le nostre madri si incontrarono in via Archimede.
Piera Sonnino è morta nel 1999 e ha lasciato quel libro, che è come una pietra nella costruzione della memoria. Indistruttibile e capace di tornare così d’improvviso, in una mattinata di sole, in un incontro improvviso, inaspettato, indimenticabile.