Bartolomeo Gagliano, i paradossi del sentimento criminale comune

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 19 Dicembre 2013 - 13:21 OLTRE 6 MESI FA
Bartolomeo Gagliano, i paradossi del sentimento criminale comune

Bartolomeo Gagliano

ROMA – Vicende come quella di Bartolomeo Gagliano, detenuto colpevole di un “mancato rientro” e , quel che è peggio, di un sequestro di persona attuato con una pistola, forse giocattolo, sono l’occasione per mettere a nudo i paradossi cui è esposto il modo comune di sentire il fenomeno criminale e il rapporto con i suoi protagonisti.

Da un lato siamo pronti a commuoverci per le condizioni disumane in cui versano le nostre carceri, dall’altro non esitiamo a condannare magistrati e direttori di istituti di pena che – in ossequio alla Costituzione prima ancora che ai regolamenti – si adoperano per rendere meno insostenibile la detenzione e favorire la “rieducazione del condannato”, secondo il dettato dall’art.27 della Costituzione, che sempre più si pone come il sogno utopico di una generazione ormai scomparsa.

In cerca di responsabilità altrui che ci liberino dalle nostre, finiamo per non trovarne nessuna. Il sistema ha funzionato correttamente: operatori penitenziari, magistrati, esperti: tutti hanno agito correttamente. Il solo rimprovero che si può muovere loro è quello di avere accettato il rischio sempre implicito nel concedere l’autorizzazione a sottrarsi per qualche ora a un sistema che tutti sono d’accordo nel definire disumano.

Peccato che non sia stato possibile utilizzare quel braccialetto elettronico (costato 81,3 milioni di euro per la fornitura da parte di Telecom, a cui vertici si trovava il figlio dell’attuale ministro della giustizia) che avrebbe consentito di monitorare l’utilizzazione di un permesso “a rischio”.

E allora , ecco i i titoli e le dichiarazioni a effetto. “Episodio gravissimo, con i braccialetti elettronici non sarebbe successo” è il commento del ministro della giustizia, in procinto di varare l’ennesima misura svuota-carceri”. “Sono distrutta!”, esclama il giudice che ha rilasciato il permesso. “Ho paura, spero solo che non sia qui a Genova”, si affretta ad aggiungere il suo ex avvocato.

La belva braccata, il mostro di San Valentino, il serial killer armato che si aggira per la città pronto a uccidere, stenta a misurarsi col “Bartolo” cui l’anziana madre cucina i piatti preferiti, che progetta – pensate – di andare al cinema, che trascorre la domenica giocando a carte col nipote .

Quell’uomo, in fuga dal carcere, sarebbe uscito in libertà tra un anno. Questo forse è il paradosso più inquietante, quello che ci costringe a confrontarci, tutti e non solo gli addetti al sistema, con la questione criminale, con il senso e la funzione della pena detentiva, in sospeso tra la l’esigenza di allontanare dalla società “civile” gli elementi più pericolosi e il richiamo a elementari principi di solidarietà.

Lo Stato – sempre sensibile agli orientamenti dell’opinione pubblica – esita ad attuare un sistema efficiente di misure alternative al carcere. Quanto a noi, la solidarietà di cui ci riempiamo la bocca non può limitarsi al volontariato di pochi , ma dovrebbe imporre a tutti – addetti ai lavori, cittadini, mass media – di condividere gli aspetti meno rassicuranti di quella che il sociologo Ulrich Beck ha definito la “società del rischio”.