Jolly Nero, Genova. Sicurezza e regole violate: di chi è la colpa

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 10 Maggio 2013 - 11:27 OLTRE 6 MESI FA
Porto di Genova subito dopo l'incidente

Porto di Genova subito dopo l’incidente (foto Ansa)

GENOVA – La tragedia del porto di Genova, di cui è stata protagonista la ‘Jolly nero’ della Messina, come già quella del naufragio della ‘Costa Concordia’, portano in primo piano la responsabilità delle compagnie armatrici per i gravissimi reati che vengono commessi nell’esercizio della loro attività, vuoi sotto forma di attentato alla sicurezza dei trasporti, vuoi in termini di violazioni delle normative nazionali e internazionali a tutela dei lavoratori e dei passeggeri.

La legge 231 del 2001, come è noto, ha introdotto nel nostro sistema la cosiddetta ‘responsabilità amministrativa’ delle imprese per i fatti costituenti reato.Novità importante, che – pur non abbandonando il principio della natura personale della responsabilità penale – ha configurato una responsabilità ‘para-penale’ per le imprese in relazione a una serie di reati ( tassativamente elencati ) commessi dai loro dipendenti, ‘nell’interesse o a vantaggio’ dell’impresa stessa.

In sostanza, con riferimento a talune tipologie di reato, l’impresa è collocata nella stessa posizione del proprio dipendente quanto alle procedure e alle garanzie della difesa. La responsabilità dell’impresa è esclusa solo se questa abbia provveduto a dotarsi tempestivamente di ‘modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi’, istituendo un apposito organismo col compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza di quei ‘modelli’.

Due considerazioni si impongono a questo proposito.

La prima riguarda l’interpretazione e l’attuazione data alla legge dalle imprese, che (senza troppa fretta per la verità) hanno provveduto a dotarsi dei ‘modelli di organizzazione’ e dei relativi ‘organismi di vigilanza’, nella convinzione che – grazie a questo adempimento formale – si sarebbero sottratte alla minaccia della nuova forma di responsabilità e alle gravi sanzioni che essa comportava. Sarebbe utile una verifica a tappeto sulle modalità di attuazione e l’ effettivo funzionamento degli organismi, la cui costituzione non è peraltro obbligatoria. Non basta , comunque, istituire sulla carta un organismo se non lo si mette in grado di esercitare effettivamente e in totale indipendenza i propri compiti di vigilanza.

La seconda considerazione riguarda la gamma dei reati suscettibili di fare scattare la responsabilità dell’impresa: L’elenco tassativo comprende , oltre ai fatti-reato di truffa in danno dello Stato, corruzione e concussione, i reati societari e – in seguito a successive estensioni – i reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi commessi in violazione delle norme anti-infortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro , cui si sono aggiunti quelli in materia di tutela dell’ambiente.

Nulla è stato invece disposto dal nostro legislatore in tema di sicurezza dei trasporti pubblici per terra, per acqua e per mare, così come in tema di naufragio e più in generale di delitti contro l’incolumità pubblica.

Ciò significa , nei casi in esame, che l’impresa potrà essere chiamata rispondere in sede penale di quei fatti, solo in relazione alla violazione di norme anti- infortunistiche o ambientali e non in relazione , per esempio, alla vetustà dei mezzi impiegati, alla trascuratezza della loro manutenzione, alla insufficiente formazione del personale. E, anche nel caso in cui essa venga chiamata a rispondere, potrà sempre trincerarsi dietro la comoda difesa di essersi prudentemente dotata di un ‘modello di organizzazione’ e di avere istituito il relativo ‘organismo di vigilanza’.

Nel frattempo, si continuerà a discettare sulla responsabilità personale di questo o quel dipendente, inveendo contro la ‘maledetta fatalità’. La realtà è però quella, descritta da Sergio Bologna nel suo saggio ‘Il crack che viene dal mare’. Le navi si sono trasformate ormai, da materiale prodotto ‘industriale’ in un immateriale ‘prodotto finanziario’.La folle corsa all’acquisto di navi sempre più grandi e redditizie comporta l’abbandono al degrado di quelle in servizio, sempre meno appetibili come ‘asset’ finanziari.

E’ giunto forse il momento, per il legislatore e per il governo, di verificare da un lato se e con quanta efficacia le imprese abbiano preso le misure richieste dalla loro nuova responsabilità para-penale, e, dall’altro, se non sia il caso di estendere quella responsabilità a ipotesi di reato rimaste sinora escluse dall’ambito del legge 231.