Governo, il contratto è un assurdo giuridico, manca il giudice, media un avvocato

di Michele Marchesiello
Pubblicato il 17 Febbraio 2019 - 06:02| Aggiornato il 23 Luglio 2019 OLTRE 6 MESI FA

Non c’è praticamente parte del cosiddetto ‘contratto di governo’ che non dia luogo a contrasti irriducibili e infine a sostanziale immobilismo del Governo giallo-verde: dalla cosiddetta ‘rivoluzione fiscale’ all’abolizione della legge Fornero, al reddito di cittadinanza, al dossier Europa, alle missioni internazionali e alla politica estera (caso Venezuela), all’immigrazione, alla legittima difesa, alla TAV e infine all’autonomia regionale ‘a macchia di leopardo’.

La ‘forma’ contratto rivela non solo la sua sostanziale (ma anche formale ) incongruità rispetto alla struttura costituzionale  del nostro Paese, ma sempre  più la pratica  inidoneità di strumento, per sua  natura  privatistico, chiamato a governare l’accordo politico-istituzionale tra Lega e Cinque Stelle.

Un contratto si basa su un equilibrio tra opposte pretese e opposti interessi, in tendenziale contrasto  piuttosto che in naturale confluenza.

Quell’equilibrio è sempre instabile e soggetto a sollecitazioni e tensioni  interpretative provenienti da entrambe le parti. Questa situazione di quasi inevitabile instabilità trova il suo rimedio naturale nella previsione di un giudice, cui – esaurite tutte le possibilità di composizione ‘amichevole’ –  viene affidata la decisione ultima sull’interpretazione e il  rispetto del ‘documento’ contrattuale. Senza la presenza del giudice sull’orizzonte contrattuale, ogni accordo è destinato o a naufragare o a impantanarsi nelle paludi dell’immobilismo.

Per questa ragione gli accordi politici non assumono  mai la forma ‘contrattuale’, ma si qualificano, appunto, come ‘accordi’, ‘intese’, ‘patti’ e simili, a indicarne la naturale, politica precarietà. Sarebbe – più che curioso – ridicolo se i ‘contraenti’ pensassero di affidare a un magistrato della Repubblica la soluzione dei loro conflitti politici.

Nello stipulare in forma addirittura notarile il proprio ‘contratto di governo’, Lega e Cinque Stelle hanno omesso di considerare il ruolo fondamentale di un giudice (o comunque un arbitro) nell’assicurare la stabilità indispensabile a ogni contratto, pubblico o privato. Il momento decisionale, in questo senso autoritativo e ‘finale’, è del tutto assente nel curioso ‘contratto’ intervenuto tra due forze politiche manifestamente antitetiche, d’accordo solo sull’occupazione congiunta del potere di governo.

Che la mancanza di questa figura centrale sia stata avvertita dai protagonisti sia può constatare nel tentativo di ovviarvi attraverso la persona di un presidente del consiglio ‘mediatore’, avvocato ‘in nome del popolo’. Ma  questa figura si rivela poco idonea allo scopo,  per caratteristiche insieme oggettive e soggettive. Dal punto di vista oggettivo, infatti, Conte non è stato dotato dei poteri necessari a risolvere gli inevitabili – spesso radicali – conflitti tra le due parti. Conte non è né giudice, né arbitro, ma, come è solito definirsi, un ineffabile ‘mediatore’. E, tuttavia, anche il mediatore più ostinato deve riconoscere il proprio fallimento e, quando le parti non riescono a trovare un accordo,  rimetterle davanti ai un vero giudice/arbitro.

Soggettivamente, l’aver scelto un avvocato e – tra gli avvocati – un temperamento sicuramente non leonino né particolarmente dotato del necessario carisma, indebolisce ulteriormente la ‘tenuta’ del contratto. Gli avvocati, si sa, rifuggono dal decidere (anche quando si trovano nella veste di arbitri, il loro istinto li conduce sempre a cercare di indurre le parti a una transazione o a un compromesso).

 Il ruolo scelto per Conte e da lui interpretato non sfugge a questo equivoco e non risolve il vero e proprio stallo politico in cui versano il ‘contratto di governo’ e con esso l’intero Pae