Ilva, magistratura, governo. Stato e poteri. Stagione di conflitti

La stagione dei conflitti non sembra avere mai fine. Conflitti tra i poteri dello Stato, prima di tutto, ma anche col Presidente della Repubblica, che formalmente non ne è un ‘potere’. E ancora conflitti tra governo e forze sociali, tra ‘correnti’ dello stesso partito politico, di ‘caste’ tra loro e con la massa indifferenziata dei rispettivi ‘utenti’: per non parlare delle mille conflittualità che sembrano affliggere ogni aspetto della nostra vita sociale e civile: dallo sport, allo spettacolo, alla stessa vita culturale.

Intendiamoci: il conflitto è il sale della vita pubblica. Dio ci guardi da una società che non ne sia vivificata. Ma anche il conflitto, come ogni fenomeno fisiologico e positivo, ha le sue patologie e degenerazioni. La malattia specifica del conflitto è il suo tradursi in contrapposizioni apparentemente irriducibili ma sostanzialmente pronte a trasformarsi in quello che con mirabile espressione si definisce ‘ inciucio’, o intesa sottobanco tra interessi particolari.

La magistratura, in particolare, sembra oggi esposta ( o esporsi ) a questo fenomeno. Dopo il conflitto tra il Presidente della repubblica e il giudici di Palermo ( col guatemalteco Ingroia in testa ), ecco profilarsi ora – molto più grave e drammatico – quello tra il governo-legislatore e i giudici di Taranto.

La vulnerabilità o, e si preferisce, l’aggressività della magistratura di fronte a queste ipotesi, ha molte spiegazioni che proviamo a riassumere.

Primo. La funzione giurisdizionale ha assunto sempre più – non solo in Italia ma nell’intero mondo occidentale – i tratti di una funzione a suo modo politica. Il giudice è diventato, che gli piaccia oppure no, un attore politico indispensabile. Da questa constatazione, e dalla diversità di interpretazione di questo ruolo per noi inedito, deriva la necessità di costruire un rapporto con la politica che impone una nuova lettura del principio della separazione dei poteri. I tre poteri classici – esecutivo, legislativi, giudiziario – sono sempre più esposti, nel coordinarsi tra loro, a frizioni, sovrapposizioni, tensioni che si devono abituare ad affrontare senza delegittimarsi a vicenda.

Rispondere a questa ‘buona conflittualità’ in termini di irrigidimento e di rafforzamento dei confini non sembra ottenere risultati diversi dal pericoloso inasprimento dei rapporti tra istituzioni.

Secondo. L’attivismo giudiziario deve incontrare dei limiti, interni ed esterni.

Al proprio interno, la magistratura deve vigilare affinché non emergano al suo interno pulsioni o ambizioni che, di fatto, alterino il principio che ne fonda e giustifica l’indipendenza . L’ art.101 della Costituzione, molto saggiamente, dopo avere affermato che la giustizia è amministrata in nome del popolo, si affretta a precisare che i principali attori della giustizia , i giudici, sono soggetti ‘soltanto alla legge’.

Esternamente, il potere giudiziario (il ‘ramo meno pericoloso’ della struttura costituzionale degli Stati Uniti, secondo la visione originaria dei padri fondatori ) deve acquistare una più precisa consapevolezza di questa nuova dimensione ‘politica’ che impone – allo stesso tempo – audacia e prudenza. Audacia, nella consapevolezza che le proprie decisioni influiscono potentemente sulle questioni politiche all’ordine del giorno. Prudenza, anche, nella consapevolezza che viene sempre messo alla prova il limite che lo separa dagli altri due poteri.

Il senso del limite è essenziale, sia che lo si intenda superare, sia che lo si intenda rispettare. Il termine inglese per questa necessaria contraddizione è ‘self-restraint’, autolimitazione. Solo attraverso la sapiente coniugazione di audacia e prudenza può essere affrontato il terreno difficile dei rapporti tra poteri costituzionali.

Terzo. La cattiva gestione del rapporto tra magistratura e politica ha dei segnali abbastanza precisi: il formarsi di schieramenti o fazioni ( pro o contro ‘i giudici’ pro o contro ‘i politici’); il corrispondente radicalizzarsi dei temi ( salute delle popolazioni contro tutela dei posti di lavoro e di un’industria strategica per il paese); il farsi scudo dei pareri ‘tecnici’ ( quando la questione è radicalmente politica); il fare appello a un’opinione pubblica sempre più disorientata e dis-informata; l’emergere di ‘personaggi’ che si identificano con i due ‘partiti’.

Detto questo e venendo alla questione Ilva, sembra che, ancora una volta, i segnali della degenerazione del conflitto si stiano manifestando chiaramente. Che la magistratura non sia stata capace di porsi e affrontare il tema della necessaria ‘auto-limitazione’ sul piano dell’interpretazione e dell’applicazione ragionevole della legge. Che il potere tecnico-politico di cui il governo si sente investito – infine – abbia rivelato la sua contraddizione radicale. Che il ricorso al decreto legislativo, nella forma di un atto almeno apparentemente eversivo del principio della separazione dei poteri, non sia altro che una prova di impotenza, avendo rinviato la soluzione del problema  in realtà un intrico di problemi) al futuro quanto inevitabile inadempimento della proprietà dell’Ilva.

Come si vede,sembra che la stagione dei conflitti, nella sua forma degenerativa, non sia affatto sul punto di concludersi.

 

 

 

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