Jolly Nero, Costa Concordia. Armatori: per i naufragi non c’è colpa, manca legge

Jolly Nero, Costa Concordia. Armatori: per i naufragi non c'è colpa, manca legge
Il disastro jolly Nero nel porto di Genova

La tragedia del porto di Genova, di cui è stata protagonista la ‘Jolly nero’ della Messina, come già quella del naufragio della ‘Costa Concordia’, portano in primo piano la responsabilità delle compagnie armatrici per i gravissimi reati che vengono commessi nell’esercizio della loro attività, vuoi sotto forma di attentato alla sicurezza dei trasporti, vuoi in termini di violazioni delle normative nazionali e internazionali a tutela dei lavoratori e dei passeggeri.

La legge 231 del 2001, come è noto, ha introdotto nel nostro sistema la cosiddetta ‘responsabilità amministrativa’ delle imprese per i fatti costituenti reato.Novità importante, che – pur non abbandonando il principio della natura personale della responsabilità penale – ha configurato una responsabilità ‘para-penale’ per le imprese in relazione a una serie di reati (tassativamente elencati ) commessi dai loro dipendenti, ‘nell’interesse o a vantaggio’ dell’impresa stessa.

In sostanza, con riferimento a talune tipologie di reato, l’impresa è collocata nella stessa posizione del proprio dipendente quanto alle procedure e alle garanzie della difesa. La responsabilità dell’impresa è esclusa solo se questa abbia provveduto a dotarsi tempestivamente di ‘modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi’, istituendo un apposito organismo col compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza di quei ‘modelli’.

Due considerazioni si impongono a questo proposito.

La prima riguarda l’interpretazione e l’attuazione data alla legge dalle imprese, che (senza troppa fretta per la verità) hanno provveduto a dotarsi dei ‘modelli di organizzazione’ e dei relativi ‘organismi di vigilanza’, nella convinzione che – grazie a questo adempimento formale – si sarebbero sottratte alla minaccia della nuova forma di responsabilità e alle gravi sanzioni che essa comportava.

Sarebbe utile una verifica a tappeto sulle modalità di attuazione e l’ effettivo funzionamento degli organismi, la cui costituzione non è peraltro obbligatoria. Non basta, comunque, istituire sulla carta un organismo se non lo si mette in grado di esercitare effettivamente e in totale indipendenza i propri compiti di vigilanza.

La seconda considerazione riguarda la gamma dei reati suscettibili di fare scattare la responsabilità dell’impresa. L’elenco tassativo comprende , oltre ai fatti-reato di truffa in danno dello Stato, corruzione e concussione, i reati societari e – in seguito a successive estensioni – i reati di omicidio colposo e lesioni colpose gravi commessi in violazione delle norme anti-infortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro, cui si sono aggiunti quelli in materia di tutela dell’ambiente.

Nulla è stato invece disposto dal nostro legislatore in tema di sicurezza dei trasporti pubblici per terra, per acqua e per mare, così come in tema di naufragio e più in generale di delitti contro l’incolumità pubblica.

Ciò significa, nei casi in esame, che l’impresa potrà essere chiamata rispondere in sede penale di quei fatti solo in relazione alla violazione di norme anti- infortunistiche o ambientali e non in relazione, per esempio, alla vetustà dei mezzi impiegati, alla trascuratezza della loro manutenzione, alla insufficiente formazione del personale. E, anche nel caso in cui essa venga chiamata a rispondere, potrà sempre trincerarsi dietro la comoda difesa di essersi prudentemente dotata di un ‘modello di organizzazione’ e di avere istituito il relativo ‘organismo di vigilanza’.

Nel frattempo, si continuerà a discettare sulla responsabilità personale di questo o quel dipendente, inveendo contro la ‘maledetta fatalità’.

La realtà è però quella, descritta da Sergio Bologna nel suo saggio ‘Il crack che viene dal mare’. Le navi si sono trasformate ormai, da materiale prodotto ‘industriale’ in un immateriale ‘prodotto finanziario’. La folle corsa all’acquisto di navi sempre più grandi e redditizie comporta l’abbandono al degrado di quelle in servizio, sempre meno appetibili come ‘asset’ finanziari.

E’ giunto forse il momento, per il legislatore e per il Governo, di verificare da un lato se e con quanta efficacia le imprese abbiano preso le misure richieste dalla loro nuova responsabilità para-penale, e, dall’altro, se non sia il caso di estendere quella responsabilità a ipotesi di reato rimaste sinora escluse dall’ambito del legge 231.”

Così scrivevamo, nell’immediatezza della tragedia del porto di Genova. Oggi, a distanza di due mesi, le indagini svolte dalla Procura di Genova hanno portato, da un lato, all’individuazione di specifiche responsabilità umane da parte di chi ha condotto la spericolata manovra. E’ emersa, tuttavia, col progredire e l’approfondirsi degli accertamenti tecnici, una serie di violazioni concernenti la sicurezza della navigazione e l’incolumità delle persone che – con ragionevole certezza – fanno dell’armatore il corresponsabile non secondario di quel terribile e luttuoso evento.

Le numerose, gravi inefficienze riscontrate; il ripetersi degli incidenti e dei guasti agli apparati che rendono possibile il governo della nave; la non adeguata preparazione e formazione del personale: non ultimi, i tentativi di depistare le indagini che si muovevano in quelle direzioni, troveranno la loro giusta e severa sede di valutazione nel procedimento penale in corso.

Quella che si vuole sottolineare oggi è una notizia tanto temuta quanto – ahimè – prevedibile.

La società Messina – per ragioni che dovranno essere accertate ma che comunque non costituiscono una valida giustificazione nella sede penale – non si era dotata né del ‘modello di organizzazione e gestione’ idoneo a prevenire reati connessi alla navigazione, né – tanto meno – dell’apposito ‘organismo di vigilanza’ che dovrebbe, appunto, vegliare all’applicazione puntuale del ‘modello di organizzazione’.

La società Messina, trovatasi scoperta rispetto alle prescrizioni di una legge che risale ormai al 2001, invoca la non obbligatorietà di quegli adempimenti e la difficoltà di provvedervi tempestivamente: il documento relativo sarebbe ‘ancora in bozza’ in quanto compilato prima dell’approvazione del piano industriale relativo al nuovo assetto della Compagnia.

La Messina ha assolutamente ragione sul primo punto: né il ‘piano’ né l’istituzione dell’ organismo di vigilanza sono obbligatori. Il punto vero è che senza di essi (e senza il loro concreto funzionamento: non basta evidentemente un adempimento puramente formale) opera pienamente e senza limite alcuno la responsabilità ‘para-penale’ dell’impresa per i fatti costituenti reato commessi dai propri dipendenti ‘ nell’interesse o a vantaggio’ dell’impresa stessa.

Questa è la situazione, né i ritardi addotti dalla Messina per giustificare il ritardo (rispetto a una legge del 2001 …) possono essere invocati per escludere una responsabilità sempre più chiaramente riferibile – oltre che alla condotta della manovra – alle condizioni a dir poco ‘critiche’ in cui la vecchia Jolly Nero si trovava a navigare, in attesa dell’annunciato rinnovo della flotta.

 

 

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