Quando, tre anni or sono, di ritorno dal Rajasthan, appresi dell’arresto dei fucilieri di marina Salvatore La Torre e Massimiliano Girone, rimasi insieme trasecolato e umiliato. Trasecolato per l’incredibile ingenuità di avere fatto rientrare la nave italiana nel porto di Cochi e quindi nell’ambito della giurisdizione penale indiana. Umiliato perché per la prima volta mi accadeva di vedere nostri militari in divisa, dichiarati in arresto e circondati da un nugolo di poliziotti di uno Stato straniero.
Da allora sono trascorsi più di tre anni. Un’eternità. Il ricordo di quel viaggio si è fatto confuso. E loro, i due marò (per ora il solo Girone, peraltro anche lui malato), ancora in stato di arresto a Dehli, senza un processo né una imputazione.
All’umiliazione mi sono abituato.
Quanto al trasecolare, non trasecolo più, tanti sono stati i passi falsi, gli errori di valutazione, le strategie farlocche annunciate da tutti i Governi e tutti i ministri che si sono succeduti alla Farnesina. Un autentico ‘manuale’ negativo per gli studenti di giurisprudenza e politica internazionale. Non staremo a elencarli di nuovo: dalla sottovalutazione dell’interlocutore indiano, alla sopravvalutazione del nostro peso diplomatico, al tentativo furbesco di ‘scippare’i marò dopo averne assicurato all’India il ritorno in quel paese, all’incredibile assenza di un sistema di intese e protezioni giuridiche che garantissero l’immunità dei nostri militari nei confronti dei Paesi rivieraschi. E chi più ne ha più ne metta, sino all’infelice idea di adire – pensate – il Tribunale di Amburgo.
Ora, al di là delle fumose ricette giuridiche proposte dagli esperti di diritto internazionale (sempre più una creatura impotente, relitto di una comunità internazionale che stenta a riconoscersi in regole comuni), ci pare che pochi commentatori abbiano individuato la sola essenziale e imprescindibile condizione, senza il rispetto della quale nessuna intesa, nessun accordo sarà possibile raggiungere tra l’Italia e l’India.
Sino a quando gli indiani sapranno che – al loro eventuale, auspicato ritorno in patria – i due marò verrebbero salutati come eroi dal giubilo popolare, accolti dai vertici del Governo, ricevuti in pompa magna dal Presidente della Repubblica, magari premiati con onorificenze e promozioni ‘sul campo’, mai e poi mai cederanno alla richiesta di consegnare quelli che considerano, allo stato, gli autori dell’omicidio di due loro pescatori.
Il punctum dolens ora è questo, indipendentemente dalle eventuali intese che potranno raggiungersi nella sede arbitrale trai due Paesi, possibilmente con l’intervento di uno Stato terzo sufficientemente autorevole. L’Italia è davvero disposta a (e in grado di) processare essa stessa i due marò accusati di omicidio e – nel caso di una loro restituzione – farli accogliere non da ministri e ammiragli, ma dai carabinieri con le manette e un cellulare, evitando per quanto possibile forme di tripudio popolare? Il ritorno dovrebbe avvenire nel silenzio e nella riservatezza – per quanto possibili – che caratterizzano una vicenda penale, anche la più clamorosa.
Col tempo, verrebbero gli arresti domiciliari, un auspicabile placarsi della commozione pubblica, un processo finalmente ‘giusto’, dopo tante assurde, crudeli e inutili traversie.
‘Hic Rhodus, hic salta’. Senza assicurare all’interlocutore indiano questo esito della vicenda, nessuna trattativa, nessuna mediazione, nessun espediente giuridico potranno porre fine alla vicenda di La Torre e Girone, arrestati a Cochi tre anni fa, negli stessi giorni, così lontani, in cui si concludeva il mio viaggio da turista nel Rajastan.
Nel frattempo, però, resta da chiedere in base a quale ‘titolo’ giuridico, le autorità indiane – la cui giurisdizione è ormai sub judice – continuino a trattenere o pretendere di trattenere i due cittadini italiani Salvatore Girone e Massimiliano La Torre.