Diciamolo pure: il reddito di cittadinanza somiglia molto a una ennesima truffa elettorale, come lo è stata quella degli ottanta euro. Il RediCit non si propone infatti di eliminare la povertà ( obiettivo prematuramente dato per raggiunto da Di Maio ), né di eliminare i cosiddetti ‘poveri’, ma di trasformare qualche milione di persone, respinte ai margini o addirittura esclusi dal circuito della ‘società civile’, da semplici ‘poveri’ in ‘poveri si, ma consumatori’, in poveri, per così dire, ‘qualificati’: come tali partecipi volenterosi di quelle stesse spinte che li hanno ridotti ai margini della società. Il povero è un insopportabile controsenso in una società bulimica quale quella in cui viviamo. Per questa ragione va eliminato. La sua fame è autentica, non virtuale quale quella che ci induce a consumare senza fine cose che non ci servono.
La funzione del RediCit è servire da specchietto delle allodole per una massa indistinta e marginale di elettori uniti dall’etichetta della povertà : quindi dell’esclusione. L’idea – proclamata – è quella di fare del cosiddetto ‘reddito’ un corrispondente ‘consumo’ di beni, al fine di incrementarne la produzione e incrementare così i profitti di chi li produce o distribuisce.
In questo passaggio il povero è destinato a rimanere tale o – al massimo – ad essere arruolato a forza nell’esercito passivo degli ‘addetti al consumo’. Il consumo diviene in questo modo il loro paradossale ‘lavoro’, e il ‘reddito’ la sua parca retribuzione, in un circuito perverso che – con l’apparenza di favorirne il recupero alla società – ne conferma l’esclusione, utilizzandoli. I ‘poveri’ infatti, devono servire, ma non devono essere scontenti o disperati e pronti alla rivolta. In questa prospettiva, il famoso ‘reddito di cittadinanza’ ha la stessa funzione di una droga o di un sedativo.
I’obiettivo di una politica seria nei confronti della povertà non può cominciare col pretendere di abolirla ‘tout court’, ma col cercare pazientemente di capirne le cause, la natura , la composizione . Un progetto complessivo di risanamento delle sacche di disagio e indigenza deve partire da un’indagine dell’esistente: avvicinare con umiltà , pragmatismo e spirito incrementale la situazione cui si rivolge. La povertà è, prima ancora che privazione di cibo, abitazione,vestiario, educazione, deprivazione radicale di un bene che fonda la stessa condizione di essere umano: la dignità personale. Non si tratta quindi di ‘dare’- sempre poco, sempre il meno possibile – a chi non ha niente , ma di ‘restituire’ la dignità a chi è stato privato di un bene essenziale, ancorchè immateriale. Solo su questa premessa potranno venire quelli che si chiamano i beni della vita, materiali e immateriali.
La povertà di una volta era – nella maggior parte dei casi – una povertà ‘dignitosa’: la alimentavano, anche nelle condizioni più umili, il rispetto di sé e la speranza – che ne derivava – di migliorare la propria condizione.
La povertà moderna è –nella maggior parte dei casi – priva sia di dignità che di speranza: uno ‘status symbol negativo’.
Una vera riforma dovrebbe partire da questo presupposto, e considerare i ‘poveri’ non come un peso da sopportare, ma come una risorsa umana inutilizzata, passando dall’assistenzialismo ( in pratica una neo-carità) alla valorizzazione piena e consapevole di quella che si definisce la qualità ‘generativa’ di un sistema di welfare, che si misura, soprattutto, dal suo saper restituire dignità a chi ne è il beneficiario.
La povertà si combatte con l’aiuto di chi ne è colpito: non offrendogli sussidi che lo incoraggiano nella sua condizione ma stimolandone e mettendone a reddito qualità, capacità, risorse che lo stigma della povertà irrimediabilmente umilia. Chiamando il ‘povero’ ad aiutare chi lo vuole aiutare.
Si impone – a questo scopo – una indagine che de-costruisca il fenomeno ‘povertà’ non più considerato come un agglomerato indistinto di condizioni, istanze, risentimenti spesso in lotta tra loro, ma visto nella propria preziosa complessità, nella molteplicità delle situazioni che si è soliti raccogliere sotto l a troppo comoda etichetta di ‘povertà’.
Non a caso il tanto esaltato – ma assai poco imitato – New Deal rooseveltiano non potè prescindere da imponenti indagini sul campo: indagini che mobilitarono i generosi sforzi di scienziati sociali, artisti, letterati, giornalisti, al pari delle migliori componenti economico-finanziarie di quella vigorosa società. Anche allora si trattava di lottare contro la povertà che minacciava di avvelenare il Paese. Il merito di Roosevelt fu di volere innanzitutto ‘comprendere’ il fenomeno, coinvolgendo nell’impresa le migliori forze intellettuali di cui gli Stati Uniti potevano disporre.
Allo stesso tempo, e con pari grado di urgenza, si impongono la ricognizione e l’auspicato riordino di tutte quelle iniziative, sorte a ogni livello ( a partire dal già in vigore Reddito di Inclusione ) che hanno provato ad anticipare la nuova prospettiva del ‘welfare generativo’. Solo a partire dall’esistente e dal suo paziente ‘riordino’ – infatti – sarà possibile impostare quella che si presenta sempre più chiaramente non come una ‘semplice’ lotta alla povertà, ma come un grande sforzo di rigenerazione di cui l’intero Paese ha disperato bisogno , all’insegna di quella solidarietà e quella dignità sociale che, non a caso, costituiscono le basi stesse della nostra Carta Costituzionale.
Tutti noi dovremmo, alla fine di questo percorso, essere grati a loro, i ‘poveri’, per averci costretti a guardare dentro di noi , ritrovandovi finalmente l’altro.