“Spese pazze”, riflessioni sulla Giustizia e i suoi effetti sulla reputazione.
La parola ‘reputazione’ ha subito nel nostro Paese una strana declinazione, una curvatura negativa. In gran parte determinata da decisioni assunte dalla magistratura. E dalla risonanza attribuita a quelle decisioni dai cosiddetti ‘media’.
L’opinione che il pubblico nutre nei nostri confronti è sempre più spesso determinata e condizionata da pronunce o iniziative della magistratura.
Dei pubblici ministeri in particolare. Specie quando si tratti di persone ‘pubbliche’ e politicamente impegnate.
Atti assolutamente preliminari all’eventuale affermazione di una responsabilità penale. Come avvisi cosiddetti ‘di garanzia’, sequestri, perquisizioni, arresti per lo più ‘domiciliari’. Determinano in modo spesso irreversibile il pendere della bilancia della reputazione personale. Verso il lato negativo, quello di una ‘cattiva reputazione’. Difficile – in seguito – riassestare quella bilancia.
Molti elementi contribuiscono a questo effetto, come nel caso delle spese pazze
Si chiama in causa la durata dei processi, ma – forse – è la farraginosità soi disant garantista del processo. A determinarne gli effetti ingiustamente dannosi sulla reputazione di una persona. Come dimostrato dal caso delle ‘spese pazze’ e da altre vicende analoghe.
La pluralità dei gradi di giudizio, con la possibilità concreta di decisioni opposte sugli stessi fatti, disorienta il pubblico. E lo ‘fissa’ nelle prime impressioni circa la ‘reputazione’ di chi viene preso nel meccanismo impassibile della giustizia penale.
Condannato per spese pazze, poi assolto perché il caso non sussiste
Edoardo Rixi condannato a tre anni e cinque mesi in primo grado (pena superiore a quella richiesta dal PM) e assolto in appello ‘perché il fatto non susssiste’. Ma la vicenda non finisce qua: la Procura già minaccia il ricorso in Cassazione.
I magistrati sono soliti difendersi invocando l’obbligatorietà dell’azione penale, stabilita dalla nostra Costituzione. Questa obbligatorietà fu comprensibilmente voluta dai Padri Costituenti. In un’epoca che recava le ferite recenti della dittatura. E del controllo da questa esercitato sulla magistratura.
Purtroppo si è tradotta col tempo in una sostanziale assenza di responsabilità dei magistrati per iniziative penali dettate da motivi non sempre commendevoli. O – comunque – da una assai scarsa considerazione per chi ne diventa l’oggetto, la sua vita personale e sociale, la sua reputazione.
Negli Stati Uniti, nessuna iniziativa penale viene portata avanti dalle Procure, se non via sia la quasi certezza di un successo processuale. E – comunque – i l Procuratore può sempre negoziare con l’imputato la propria eventuale rinunzia alle accuse più gravi.
In Italia – lo sappiamo – questo non è possibile, almeno non lo è ‘alla luce del sole’.
Resta, ineludibile, la necessità di difendere le persone dalle conseguenze non necessarie di quello che Calamandrei definì famosamente ‘il processo come pena’.
A questo risultato ci si potrà avvicinare, vuoi riducendo la complessità e implicita contraddittorietà del percorso processuale. Sempre più rendendo il giudizio di primo grado come ‘il’ giudizio. E gli ulteriori gradi come delle rarissme ‘eccezioni’. Vuoi provando a limitare, se non eliminare, la portata del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Anche se questo rischia di venire etichettato come un pericoloso colpo inferto all’indipendenza della magistratura.