Casta delle Province al fianco dei sindacati. Su Monti il grande rigetto

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 19 Dicembre 2011 - 13:54 OLTRE 6 MESI FA

Mario Monti (Lapresse)

ROMA – Un dettaglio, ma, oltre che spesso nascondersi, sia il “diavolo” oscuro che la verità lampante amano anche rivelarsi nei dettagli. Ed ecco il “dettaglio” di giornata, il dettaglio del 19 dicembre 2011, del giorno in cui i sindacati cinsero di indignato assedio Montecitorio, del giorno dello sciopero del Pubblico Impiego contro il governo e il suo decreto. Il dettaglio è quello dell’Upi, dell’Unione delle Province italiane, che solidarizza con gli scioperanti con un comunicato dolente in cui si versano lacrime sul futuro spaventoso e spaventato di “56 mila famiglie”, quelle di tutti quelli che nelle Province lavorano. Dettaglio che inaugura una nuova convergenza, se non proprio alleanza. Convergenza di interessi e quindi fronte comune: la Casta delle Province e Cgil, Cisl e Uil unite nella lotta. Ovviamente non sono a rischio i posti di lavoro e gli stipendi dei dipendenti delle Province, in via di cancellazione sarebbero, se mai saranno, i posti in Consiglio e in Giunta dei politici delle Province. Ma tutto fa brodo nella giornata, tutto concorre, di dettaglio in dettaglio, alla reazione di rigetto. Che non è proprio ancora choc anafilattico ma poco ci manca.

Raffaele Bonanni e Susanna Camusso che bollano il ministro Elsa Fornero come “maestrina” e “violenta”. La Cgil che non solo si oppone ma, come giustamente titola il Corriere della Sera, “rompe con il governo”. I sindacati che proclamano “intollerabile” il blocco delle pensioni sopra i 1.400 euro e “punitivo” l’innalzamento immediato dell’età pensionabile. E che chiedono di far pagare i “patrimoni”, patrimoni che pagano abbondanti 15 miliardi dei 22 di nuove tasse. Nuove tasse che i sindacati contestano, insomma chiedono più tasse alla inderogabile condizione che non le paghino i possessori di una sola casa, i lavoratori dipendenti, i dipendenti pubblici, i titolari di una qualche forma di risparmio accumulato in banca, i consumatori… Insomma… nessuno. I sindacati che reclamano “concertazione”. L’ultima volta che noi italiani, sindacati compresi, abbiamo concertato qualcosa di buono e di utile, e quindi anche di equo, è stato nel 1992, venti anni fa. Da allora tutti insieme, sindacati compresi, abbiamo “concertato” per venti anni il disastro attuale.

I sindacati e i commercianti che comprano pagine di giornale per spiegare che la libertà, non l’obbligo, di tenere i negozi aperti quando si vuole, determinerà la miseria dei commercianti. I gestori dei porti turistici che raccontano il loro destino di fame se il posto barca viene tassato. I farmacisti che raccontano tutti gli italiani si avveleneranno se compreranno l’Aulin fuori dalle mura di una farmacia. I tassisti che presidiano il territorio diviso in “lotti” dove ciascuno ha diritto naturale e intoccabile alla sua quota clienti. I benzinai che si preparano caso mai venisse in mente a qualcuno di “liberalizzare” anche loro, non sia mai consentendo di vendere insieme benzina, cibo o giornali.

Gli edicolanti che dichiarano morta la libertà di in formazione se compri il giornale anche fuori dall’edicola. I sindacati che vogliono “equità” ma trovano equo che chi oggi può vada in pensione a 59 anni e chi oggi non può, i giovani, paghino i contributi per la pensione dei padri e dei nonni. I sindacati che ad un “tavolo”, il famoso “tavolo” che amano tanto non vogliono neanche sedersi se a questo “tavolo” si parla del cosa fare e cosa dare per mettere argine al precariato. I sindacati, sindacati di chi ha un lavoro fisso e una pensione imminente, che alla questione del lavoro precario hanno e danno una sola risposta: assumeteli tutti. Ecco, peccato non averci pensato prima. I sindacati fulcro e pilastro della reazione di rigetto. E intorno a loro non a caso arrivano e si addensano in comune e convergente rigetto le “caste” sociali e politiche.

Reazione di rigetto, rigetto della realtà prima di ogni altra cosa. Qualcosa del genere è già accaduta, si è già prodotta nel 2011. Lo ha raccontato Giulio Tremonti in una mezz’ora in tv con Lucia Annunziata: “Dopo la sconfitta elettorale alle amministrative si è manifestata una classe politica perfetta per un paese senza debito pubblico, perfetta per fare debito pubblico…”. Pdl e Lega ed alleati di governo, sconfitti nelle urne, pensano e premono per abbassare tasse e aumentare la spesa, certi e sicuri che così si riconquistava l’elettorato perduto. Il mondo guarda questo paese indebitato che proclama incasserà di meno e spenderà di più. Guarda e decide che di questo paese non ci si può fidare. Da qui parte l’estate e l’autunno della sfiorata bancarotta italiana. E’ questa in breve la vera storia del 2011 italiano: una reazione di rigetto, rigetto della realtà, da parte del ceto politico e sociale che governava.

Ora la cosa, il fenomeno, la maledizione va a ricomporsi, prodursi, inverarsi. Di nuovo, nel 2012. La Lega e l’Idv, Bossi e Di Pietro contro Monti in nome del popolo sofferente e mezzo Pdl che col cuore, anche se non ancora con il voto in Parlamento, contro Monti sta. E il Pd che sta con il governo, con Monti ma anche con la Cgil che con Monti ha drasticamente “rotto”. E fuori dal Parlamento la Sel di Vendola che contro Monti sta. E i commercianti, i pubblici dipendenti, i pensionati, gli avvocati, le casse previdenziali dei professionisti… Fermenta e monta la reazione di rigetto: nel 2011 si è manifestata una classe dirigente di destra pronta alla bancarotta pur di rivincere le elezioni, a cavallo tra il 2011 e il 2012 il fenomeno è ancora più ampio: ceti dirigenti e popolo di destra e di sinistra in guerra, pronti a rigettare…la realtà.

Raccontandosi che abolire le Province è attentato alle famiglie, che un Aulin al supermercato è attentato alla salute, che i patrimoni non sono toccati quando pagano 15 miliardi, che le tasse possono e devono essere pagate sì ma da nessuno che qualcuno conosca per nome e cognome, che la pensione a 65 anni ce la impone, chissà e perché e comunque maligna, l’Europa e che “i professori”, anzi “le maestrine” devono “scendere dalla cattedra” e che il decreto “poteva scriverlo mio zio che non capisce niente” (copyright Bonanni). Questa sì che è realtà, quella di un paese che potrebbe, poteva non avere domani i soldi per pagare stipendio e pensioni è invece favola.

Un paese graffiato e ferito da una manovra da quasi 25 miliardi di tasse che grida di essere stato scuoiato vivo. Un paese costretto dal decreto a pagare il conto al negozio di alimentari perché possa fare la spesa domani ancora a credito che grida che questo è “intollerabile”. La storia del 2011 italiano può ripetersi e, se la prima volta è stata farsa di governo, la seconda potrebbe essere dramma, quello vero e non quello recitato.