Come se ne esce? “Contratti”. Crisi? No, grande “Riduzione”

ROMA – Come se ne esce? Lo domandano, se lo domandano e si rimpallano e rimbalzano la domanda un po’ tutti. Sicuri comunque che “se ne esce”. E non c’è dubbio che in qualche modo se ne uscirà, ma non come tutti si aspettano e cioè uguali  a prima “passata la nottata”. Come se ne uscirà davvero? “Contratti”: così si uscirà dalla Grande Contrazione che è più e soprattutto altro dalla grande crisi. Contratti e non solo “spremuti”. Nel concetto e nell’aggettivo “spremuti” c’è l’idea più o meno inconscia che, pagate più tasse e fatto qualche “sacrificio”, l’elastico rimbalza e torna a ridare la forma precedente all’economia, alla politica, alla società. Spremuti, strizzati ma poi si torna alle forme e alle dimensioni originarie. E invece sarà altrimenti: se ne esce “contratti” e cioè cambiando forma e dimensioni. Contratti, cioè compressi: così se ne uscirà.

Perché contrazione e non crisi? Perché una grande crisi finanziaria, come quella che l’Occidente sta vivendo da quasi quattro anni, richiede almeno il doppio degli anni della sua durata perchè l’eccesso di debito venga “asciugato”, assorbito dalla spugna della nuova ricchezza prodotta. Questo in tempi di “normale” crisi. E’ più o meno una costante matematica manifestatasi nelle crisi finanziarie. Può essere, all’ingrosso, esemplificata così: una famiglia che scopre di essere molto, troppo indebitata, se non trova qualcuno che continua a finanziare il suo debito, comincia a ripianare, ripagare il suo debito con una parte del reddito che porta a casa. Ma ci mette anni per farlo. Quanti anni? La grande “famiglia” dell’economia mondiale, più o meno come l’ipotetica famiglia minima e qualunque, in tempi di crisi “normale” ci mette più o meno il doppio degli anni in cui la crisi del debito si è manifestata.

Nel frattempo, ad impedire che la crisi finanziaria diventi crisi di liquidità, solvibilità e quindi drammatica crisi sociale, ci pensano, dopo l’esperienza della Grande Crisi del 1929, gli Stati sovrani. E’ quel che è accaduto tra il 2008 e il 2011: gli Stati hanno garantito che le banche non fallissero, che i conti correnti non evaporassero, che crediti e debiti venissero pagati e onorati. E lo hanno fatto trasformando di fatto l’enorme e colossale, l’inesigibile debito privato, delle banche ma anche dei consumatori-cittadini, in debito pubblico. A questo punto la crisi ha subito la sua prima mutazione, è comparso il secondo “mostro” cui spesso fa riferimento Tremonti: il rischio di insolvibilità a media-lunga scadenza degli Stati, dell’enorme debito diventato pubblico. Rischio forse sopravvalutato dai mercati e dai risparmiatori, ma rischio che ha comunque spento la capacità, la possibilità degli Stati e dei governi di agire sulla crisi finanziaria. Stati e governi hanno esaurito, sparato le loro “munizioni”, non possono più salvare il sistema finanziario e del credito, devono salvare se stessi.

E possono farlo a due condizioni. La prima è spendere di meno e incassare di più. Di qui le manovre “restrittive” in tutto l’Occidente: meno spesa e più tasse. E’ la prima condizione, necessaria ma non sufficiente. Stati e governi lo stanno più o meno facendo, più o meno a questa condizione stanno assolvendo. La seconda però è la condizione “necessaria” dopo quella “sufficiente”: la condizione della produzione di nuova e suppletiva ricchezza, insomma quella che tutti invocano e chiamano “crescita” o “ripresa”. Condizione che non si sta realizzando, anzi che sta sfumando. Sfuma negli Usa dove Obama non sa come incrementarla e dove i Repubblicani del Tea Party si incaricano di soffocarla negandole ossigeno. Sfuma in Germania dove la perfetta macchina da esportazione comincia a trovare fuori dai confini mercati che sono “cavalli che non bevono” e dove la pubblica opinione e l’elettorato hanno una paura matta di dover “pagare per i latini” se si pompano soldi nell’economia europea. Sfuma, anzi resta rasoterra in Italia. Rallenta perfino in Cina dove il salario medio che era nel 2000 di 0,72 dollari l’ora è ora avviato agli 8,16 dollari nel 2015. Quindi il vantaggio per le imprese europee e americani di “delocalizzare” in Cina si riduce al solo 15 per cento del costo lavoro. La ripresa, la crescita non ci sono, non si vedono, le Borse non ci credono, i governi hanno esaurito le “munizioni”. La seconda condizione non c’è. E allora la crisi finanziaria, mutata in crisi del debito sovrano, “evolve” in crisi produttiva prima e sociale poi. E diventa la Grande Contrazione: alla “famiglia” indebitata non basta destinare una quota del reddito al ripiano del debito. Alla “famiglia” indebitata viene a mancare una parte del debito precedente, deve quindi mutare e contrarre le sue abitudini di spesa e consumo, le sue garanzie, i suoi diritti acquisiti, i connotati della sua qualità e dimensione di vita.

Per cui, per capire e sapere il pezzo di storia in cui siamo immersi, andrebbe mutato, adeguato il vocabolario lessicale e mentale. Non crisi, ma contrazione. Non “manovra” o “sacrifici” d’emergenza temporanei e contingenti, ma riduzione strutturale dei parametri. Non difesa in trincea, ma ordinata ritirata. Non “tavoli” di concertazione e trattativa su come spartire, ma allestimento di ricoveri dove nessuno porta quel che aveva prima. E, soprattutto, non più politica intesa come ente supremo della redistribuzione e della protezione. Oggi la politica, tutta la politica offre una “narrazione” falsa. In Italia la destra narra che la crisi è una calamità naturale dopo la quale splenderà il sole e la sinistra narra che dal costo della contrazione potrà essere esentata la parte meno ricca della società. E si assiste a curiosi testa-coda narrativi. La destra, soprattutto l’elettorato di destra chiede, esige che lo Stato faccia ripartire la “crescita”. E’ quella destra politica e sociale che aveva come comandamento lo Stato il più lontano possibile dall’economia. Dalle due sponde  dell’Atlantico la destra o rimastica il mantra del mercato che da solo tutto risolve, e lo fa di fronte ad un palese e drammatico fallimento del mercato auto regolatore e risolutore, oppure riscopre uno statalismo dove si ibridano populismo e impotenza. La sinistra, che non ne è responsabile, della Grande Contrazione non tollera neanche l’idea, la rifiuta e con essa rifiuta la realtà. Nel nuovo vocabolario invece la parola utile per definire la politica che servirebbe purtroppo non c’è. Ed è un grosso guaio, l’ultimo ma non l’ultimo: la Grande Contrazione non può essere evitata, scansata, elusa. Può solo essere governata. Ma da una politica che non c’è. E allora, in assenza di politica, la Grande Contrazione potrebbe contrarre anche la pace sociale e la democrazia.

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