Italia davvero in recessione…infatti Celentano scatta sui soldi

di Mino Fuccillo
Pubblicato il 16 Febbraio 2012 - 16:21 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – L’Italia è in recessione, lo si legge nei numeri dell’Istat: meno 0,7 per cento del Pil nell’ultimo quadrimestre del 2011. Lo si vede in minor produzione di fabbriche e aziende, in minor reddito per chi lavora, in meno lavoro disponibile per chi ce l’ha e figuriamoci chi non ce l’ha. E’ recessione vera e non “rallentamento” dell’economia: lo si legge, lo si vede, lo si sente nella minor “moneta” che circola, moneta in ognuna delle sue forme immaginabili. Recessione che si respira e si annusa anche nei comportamenti individuali: minor spesa e più attenzione alla “moneta”. Riguarda tutti, tocca tutti, raggiunge tutti questa maggiore attenzione alla “moneta”. Infatti perfino Adriano Celentano è sulla “moneta” che è scattato, è stata questa la molla della sua “provocazione al dibattito”.

Davanti a dieci milioni e passa di italiani telespettatori, per cinquanta e passa minuti non è che Celentano abbia “attaccato il giornali cattolici”. Ha attaccato chi era intervenuto, chi si era pronunciato sulla sua di “moneta”. Ripercorriamo brevemente la sequenza dei fatti e delle motivazioni. Qualche settimana fa si apprende che la Rai avrebbe pagato a Celentano per la sua partecipazione a Sanremo 750mila euro. Qualcuno sollevò l’obiezione che erano tanti, forse troppi. Obiezione zittita dall’argomento che Celentano li avrebbe girati quei 750mila in beneficenza. Così Celentano pensava di aver chiuso i conti, di essersi garantito e comprato al giusto prezzo l’approvazione nazionale e corale, il “consensus omnium” a lui dovuto. Ma “l’Avvenire” e “Famiglia Cristiana” nei giorni successivi all’omaggio nazionale al Celentano benefattore vollero uscire dal coro. I due giornali fecero rilevare che la beneficenza Celentano la faceva sì con i suoi soldi ma anche imponendo una “tariffa” comunque altissima alla Rai, insomma la beneficenza la faceva anche con u surplus di soldi Rai e in fondo del contribuente, surplus imposto al mercato più che imposto dal mercato delle prestazioni artistiche. Nel nostro piccolo avevamo definito questa procedura la “tassa Celentano” più che la Celentano beneficenza. Non solo, “l’Avvenire” e “Famiglia Cristiana” vollero far notare che Celentano decideva in prima e solitaria persone a chi e a come dovevano andare quei soldi, insomma beneficenza ma con destinatario obbligato: i soldi suoi, ma anche quelli della Rai, spediti ad un indirizzario “non negoziabile”.

Ed è questo che fa scattare Celentano, questo voler metter bocca sulla sua “moneta”. Imbarazza dover fare questa radiografia delle motivazioni, imbarazza dover far l’esegesi di una condanna arrivata fino a “quei giornali dovrebbero chiudere”. Celentano non intendeva attentare alla libertà di stampa, alla democrazia, all’equilibrio tra i poteri. Tutte materie troppo astratte per lui come lui stesso sempre e volentieri nella sua vita ha ammesso, anzi rivendicato. Celentano voleva regolare i conti con chi aveva allungato la parola sulla sua “moneta”. Reazione recessiva, culturalmente recessiva quanto consona a tempi di generale recessione. Imbarazza dover cogliere il tratto meschino della sua legittima reazione. Eppur va detto, non fosse altro che per ripagare evangelicamente Celentano della sua stessa “moneta”: ha giudicato insolente discutere dei fatti e dei soldi suoi in nome della vera e autentica fede e morale. Ma siccome è “scattato” per i fatto e i soldi suoi, la vera fede e morale non doveva invocarla come sua fideiussione. Questo no, questo va detto appunto per ripagarlo con la sua moneta.

E il resto di Celentano a Sanremo? Il resto non c’è. O meglio c’è una conferma, una riprova della recessione culturale dell’uomo. Tutti i “buoni” della sua predica sono nel circolo delle persone che Celentano conosce appunto di persona. Tutti gli altri sono “cattivi”. E’ la cultura del “me lo ha detto mio cugino” e “di lui mi fido perché lo conosco”. Il resto, il Celentano costituzionalista, economista e politico non c’è e non c’è mai stato. Ascoltare e discutere Celentano che parla di referendum o spread è come ascoltare e discutere di Francesco Totti che parla di fiscal compact e di rapporto equilibrato tra sostenibilità del debito e insieme del welfare. Fareste giocare voi Celentano in campo al posto di Totti? Fareste giocare al centro della difesa della Roma Mario Monti al posto di Kjaer? Oddio…al posto di Kjaer forse sì, perfino Monti o Celentano. Ma, fuor di celia, la trasformazione e l’accettazione di un grande cantante in un insegnante del corretto vivere e pensare è imbarazzante. Non per lui ma per chi l’ha accettata e proposta.

E qui veniamo alla Rai. Come definire una “cosa” che accetta di dare non solo libertà ma anche licenza assoluta di usare le sue reti a qualcuno che poi, ottenuta licenza universale e assoluta, allude e denuncia alla Rai che “censura”? Come definire l’applauso gaudente dei dirigenti Rai in prima fila al palco dell’Ariston che applaudono e fanno festa all’esibizione che definitivamente li inguaia? Per dirla alla Celentano, e cioè per dirla senza pensarla, si può definire tutto questo come la riprova che la stupidità è una delle forze che abitano e muovono il mondo. Il mondo, quindi figurarsi la Rai. Beate le Rai che non hanno bisogno dei Celentano, beati i paesi che non devono subire e vivere l’imbarazzo di discutere di Celentano moralista e statista. Ma, come sempre, il problema non è Celentano, ma chi ce lo ha mandato. Non a cantare o a intrattenere ma a fare all’Italia la predica su come si vive. Il problema è chi ha dato a Celentano pulpito e cattedra pensando, e questo è il vero dramma, che pulpito e cattedra siano la somma dello share e dell’audience.