ROMA – “Lascio il governo a testa alta”, bene poteva fermarsi qui Maurizio Lupi e gli avremmo creduto. O almeno lui avrebbe creduto in se stesso, con se stesso sarebbe rimasto coerente. Capita, può capitare di “lasciare il governo a testa alta”, capita in molti luoghi del mondo a non pochi uomini e donne che si occupano della cosa pubblica. Non sempre dimissioni è sinonimo di infamia, talvolta ci si dimette per responsabilità e dignità. Qualunque cosa ne pensino quelli che gridano sempre e solo “vergogna”, sono i galantuomini e gli uomini e donne con senso dello Stato che si dimettono dall’incarico quando l’interesse pubblico è compromesso o semplicemente danneggiato dal loro restare in carica.
Anche quelle di Lupi da ministro potevano essere dimissioni così, dimissioni dignitose rassegnate per dignità e responsabilità e a salvaguardia di interesse collettivo. Può capitare a un ministro di collaborare per decenni con un manager, di diventare intimo del suddetto manager, di celebrare insieme ricorrenze, scambiarsi auguri e ovviamente telefonate (un po’ meno ovviamente regali da migliaia di euro di valore) con manager e imprenditori che poi un giorno finiscono arrestati. Arrestati per aver costituito associazione di fatto che faceva dei grandi pubblici lavori affari privati e del pubblico denaro disponibilità finanziaria e liquida di lobby.
Può capitare e il giorno in cui capita il ministro, il politico, si dimette. Deve dimettersi. Appunto per dignità, responsabilità. Dimettendosi continua il suo lavoro di uomo di governo, con le dimissioni completa il suo ruolo di uomo pubblico. Bisogna essere ottusi oltre che faziosi, civilmente maleducati, inconsapevoli e sprezzanti verso ogni forma di civismo, e anche di politica, per sostenere che uno si dimette solo se è condannato o almeno rinviato a giudizio. Un galantuomo e un uomo di Stato si dimette anche se innocente o non inquisito, proprio perché innocente e non inquisito. Si dimette perché uno, anzi due, anzi tre con cui trattava appalti e denari della cosa pubblica si sono ritrovato arrestati con l’accusa di strazio e strage di appalti e denari pubblici.
Uno che hai difeso da ministro in Parlamento e al governo (e non solo facendo sapere al telefono che se cadeva lui cadeva il governo), uno che hai giudicato affidabile anzi di più, uno che collaborava con te non solo da ingegnere, uno che faceva parte non solo delle tue conoscenze di lavoro ma anche in buona misura delle tue frequentazioni…uno così, proprio quello lì i magistrati lo arrestano. E’ ovvio, logico, utile, normale che se ti capita questo non puoi più fare il ministro. Non di quella roba almeno di cui si occupava l’arrestato. Nel caso in specie del lavori pubblici. Non puoi fare più il ministro e la questione se tu sia innocente o colpevole dal punto di vista penale è irrilevante. E’ depistaggio. La pista giusta è: un uomo che cura la cosa pubblica se gli capita di esser stato politicamente responsabile di uno arrestato per supposto e prolungato saccheggio della cosa pubblica si dimette. E se lo fa, se lo fa così, ha il diritto di dire l’ho fatto “A testa alta”.
Purtroppo per lui e un po’ purtroppo per tutti noi Maurizio Lupi non si è fermato qui. Non si è fermato alle, diciamo così, anglosassoni o teutoniche dimissioni per senso dello Stato. Non ha resistito a tuffarsi, a vestirsi, a impaludarsi con la forma e la sostanza delle dimissioni all’italiana. “I miei affetti, la mia famiglia assediati e messi in pericolo…Non mi dimetto da padre e da marito…”. Al Parlamento che lo ascoltava (poco) e al paese che lo sentiva via radio e tv e web, Lupi ha raccontato della sua famiglia assediata, percossa, aggredita, mediaticamente s’intende. Si è narrato papà che si dimette per fare con il suo corpo scudo al figlio. Si è dipinto, si è consegnato alla “sentenza dei posteri” (posteri assai prossimi perché Lupi pensa di rientrare presto) come una vittima.
Vittima della stampa aggressiva, vittima della maldicenza, dell’astio o di chissà cosa altro. Comunque vittima. Ed è qui, ed è questa l’essenza delle dimissioni all’italiana: ci si dimette non perché è giusto, corretto e utile ma perché i cattivi, gli infami e gli invidiosi hanno costretto alle dimissioni. Non fanno così solo i ministri e neanche solo i politici. Ogni impiegato o funzionario o manager pubblico o privato che sia se deve lasciare un incarico sempre si racconta (in famiglia o sui giornali a seconda della potenza delle sua voce) come una vittima. Ogni imprenditore, commerciante, professionista, dipendente se nella vita deve fare un passo indietro, se deve mollare qualcosa lo fa gridando a tutti e a se stesso che lui è una vittima.
Ogni membro della società italiana è come se sentisse la condizione acquisita come una proprietà privata che si può essere costretti a lasciare solo a seguito di una espropriazione. Dimettendosi Lupi ha non salvato ma evitato di danneggiare ulteriormente lo Stato nella forma del Ministero delle Infrastrutture. Poteva essere un atto di dignità e responsabilità, fatto a “testa alta”. Ma ci ha voluto mettere dentro e sopra e sotto la famiglia sconvolta, la moglie dolente, il figlio confuso, i suoi affetti e la sua “roba” privata. Non c’entravano nulla con la sua dignità e responsabilità di uomo pubblico. Ma l’italianissimo Lupi per dimettersi non è riuscito a trovare nessuna vera ragione e utilità pubblica. Ha voluto dire al paese che lui si dimetteva per difendere la famiglia. Altre buone e forti ragioni per dimettersi Lupi non ha trovato meditando con se stesso per 72 ore.
E questa è la prova ulteriore, l’ultima di una lunga serie che proseguirà, del fatto che in Italia un ceto politico, una classe dirigente non c’è. Ci sono uomini e donne oneste, uomini e donne ladri, uomini e donne così così, competenti o ignoranti, pagliacci o seriosi, di tutte le specie. Tranne una, quella che riesce a vedere, pensare, trovare, realizzare come proprio ruolo e missione l’interesse non della famiglia di appartenenza più o meno larga ma l’interesse cosiddetto generale. Quindi o il ministro che dimette all’italiana, si dimette per la famiglia (niente ceto dirigente anche scontando un Lupi innocente) oppure l’oppositore alla Di Battista M5S che richiede indietro i mesi di stipendio del ministro.
In entrambi i casi non si contempla neanche la possibilità di dimissioni per dignità e responsabilità, di dimissioni per la res publica. Lupi si dimette per la famiglia, Di Battista avrebbe richiesto indietro gli stipendi anche di Churchill dopo Gallipoli (Mar Nero, non Puglia). Per l’uno è questione di salvare il patrimonio famiglia, per l’altro ogni rapporto Stato-cittadino è sempre e solo questione di soldi. In fondo, neanche tanto in fondo, sia pure su campi diversi, Lupi e Di Battista spargono e coltivano la stessa semenza, quella della “roba”. E la “roba” o è mia o è loro, terzo non è dato. E seminando la pianta della “roba” mai e poi mai cresce la pianta della cosa pubblica.
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